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“Così immediate le rovine da assomigliare alla certezza dell’amore”
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Visioni della città novecentesca
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Varchi
Dall’altra parte havvi due scogli: l’un
Va sino agli astri, e fosca nube il cinge
Nè su l’acuto vertice, l’estate
Corra, o l’autunno, un puro ciel mai ride.
Montarvi non potrebbe altri, o calarne,
Venti mani movesse, e venti piedi:
Sì liscio è il sasso, e la costa superba.
Nel mezzo volta all’Occidente, e all’Orco
S’apre oscura caverna, a cui davanti
Dovrai ratto passar: giovane arciero,
Che dalla nave disfrenasse il dardo,
Non toccherebbe l’incavato speco.
Scilla ivi alberga, che moleste grida
Di mandar non ristà. La costei voce
Altro non par, che un guajolar perenne
Di lattante cagnuol: ma Scilla è atroce
Mostro, e sino ad un Dio, che a lei si fesse,
Non mirerebbe in lei senza ribrezzo.
Dodici ha piedi, anterïori tutti,
Sei lunghissimi colli, e su ciascuno
Spaventosa una testa, e nelle bocche
Di spessi denti un triplicato giro,
E la morte più amara in ogni dente.
Con la metà di sè nell’incavato
Speco profondo ella s’attuffa, e fuori
Sporge le teste, riguardando intorno,
Se delfini pescar, lupi, o alcun puote
Di que’ mostri maggior, che a mille a mille
Chiude Anfitrite ne’ suoi gorghi, e nutre.
Nè mai nocchieri oltrepassaro illesi:
Poichè quante apre disoneste bocche,
Tanti dal cavo legno uomini invola.
Men l’altro s’alza contrapposto scoglio,
E il dardo tuo ne colpiria la cima.
Grande verdeggia in questo, e d’ampie foglie
Selvaggio fico; e alle sue falde assorbe
La temuta Cariddi il negro mare.
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Rebaudengo-Fossata
“Tuuuuuu-tuh-tuh” è il rumore fastidioso e frequente di una stazione deserta nella periferia torinese. È il rumore fastidioso che nella sua frequenza esatta di tre minuti impedirebbe a chiunque di riposare.
Nelle stazioni delle città, da che esistono, hanno dormito viaggiatori in attesa di una nuova direzione, ma soprattutto coloro che ogni notte ci hanno trovato un tetto. Ma le stazioni non sono più quelle tettoie liberty che all’inizio del ‘900 accoglievano statiche arrivi, partenze o chi, con l’occhio dello theorein che ha alimentato il positivismo tecnologico, guardava i mostri fumanti allontanarsi dalla metropoli. Questo posto in cui siamo seduti, questa confezione sotterrata in cui ci siamo inscatolati, non ci fa capire dove siamo; da queste viscere in acciaio non si vede fuori e anche il treno sparisce veloce nel buio.
Qui l’unica cosa che vediamo è che non possiamo dormire.
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Pezzi di gentrificazione: il Social Housing di Porta Palazzo
Il sunto del Programma Housing Compagnia San Paolo rispecchia alla perfezione le logiche biopolitiche con cui oggi il capitalismo neoliberale spreme direttamente la vita delle persone, soprattutto tramite la capacità delle stesse di concepirsi come un’impresa individuale in cui anche gli aspetti più personali sono considerati motori di produttività.
Una delle colonne portanti di questo modus operandi sul territorio è proprio quella di concepire lo spazio come tecnologia in cui l’espressione delle proprie capacità personali e la formazione di reti sociali vengono inserite in un processo produttivo sofisticato e a più livelli. La questione chiama perentoriamente in causa gli abitanti della zona in cui il progetto si è realizzato, e che vogliono opporsi alla gentrificazione di cui questo rappresenta un tassello. Aurora è un quartiere nel quale storicamente convivono poveri di diverse provenienze e la cui immagine più potente è quella del grande mercato di Porta Palazzo, approdo commerciale e incontro di tentativi di sopravvivenza della ex città operaia. Lungi dal fare un’apologia delle politiche keynesiane e di redistribuzione che nel secolo scorso velavano l’immaginario della povertà con un misero salario, non ci si può esimere neanche dall’opposizione alle nuove forme di sfruttamento che cercano radice in zone come questa che, alle porte del centro, rappresentano per governanti e imprenditori un terreno fertile in cui attuare una bonifica sociale. Continua a leggere
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Il corpo utopico
A quel luogo che Proust torna a occupare, lentamente e con timore, a ogni suo risveglio, non posso più sfuggire, non appena avrò aperto gli occhi. Non che a causa sua io rimanga inchiodato al mio posto – perché dopo tutto posso non soltanto muovermi e agitarmi, ma anche agitarlo, muoverlo, cambiarlo di posto – solo che, ecco, non posso cambiare luogo senza di lui, non posso lasciarlo là dov’è, e andarmene, io, altrove. Posso pure andarmene in capo al mondo, nascondermi sotto le coperte la mattina, farmi il più piccolo possibile, posso pure liquefarmi al sole su una spiaggia, lui sarà sempre là dove sono io.
È irrimediabilmente qui, mai altrove. Il mio corpo è il contrario di un’utopia, è ciò che non sarà mai sotto un altro cielo, è il luogo assoluto, il piccolo frammento di spazio col quale letteralmente “faccio corpo”.
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Istantanee vicine-lontane complementariamente ai tempi delle archistar.
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LA NUOVA RAGIONE DEL MONDO- Critica alla ragione neoliberista- Introduzione italiana Pt2
Di Pierre Dardot e Christian Laval, DeriveApprodi 2013
Introduzione all’edizione italiana Pt2
I limiti del marxismo
Ponendo l’accento sul regime disciplinare imposto a tutti attraverso una logica normativa che si è incarnata dentro istituzioni e dispositivi di potere la cui estensione è oggi planetaria, le tesi sostenute in questo libro differiscono radicalmente dalle interpretazioni del neoliberalismo fornite finora. Non si tratta di contestare che le politiche neoliberiste siano dapprima state imposte con la violenza criminale in Cile, in Argentina, in Indonesia e in altri posti, con il vigoroso sostegno dei paesi capitalisti, a cominciare dagli Stati Uniti. Il lavoro ben documentato di Naomi Klein è su questo imprescindibile. Nella fattispecie, c’è una frase di Marx che non è invecchiata: “Nella storia reale la parte importante è rappresentata, come è noto, dalla conquista, dal soggiogamento, dall’assassinio e dalla rapina, in breve dalla violenza”.
Questo parto nella violenza tradisce anzitutto il fatto che si tratta appunto di una guerra condotta con qualunque mezzo disponibile, ivi incluso il terrore, e si impadronisce di qualsiasi occasione possibile per istituire il nuovo regime di potere e la sua forma di esistenza. Eppure prenderemmo la strada sbagliata riducendo il neoliberismo all’applicazione del programma economico della scuola di Chicago con i metodi della dittatura militare. È opportuno non confondere la strategia generale e i metodi specifici. Questi dipendono infatti dalle circostanze locali, da rapporti di forza e fasi storiche, potendo impiegare tanto la brutalità dei golpe militari quanto la seduzione elettorale delle classi medie e popolari; usando e abusando del ricatto all’impiego e alla crescita; servendosi dei pareggi di bilancio e del debito quale pretesto per le “riforme strutturali”, come fanno da sempre il Fondo Monetario Internazionale e l’Unione Europea. […]
Nessuno dubita che vi sia una guerra portata avanti da gruppi oligarchici in cui si mischiano, in forma di volta in volta specifica, gli interessi dell’alta amministrazione, degli ologopoli privati, degli economisti e dei media (senza dimenticare l’esercito e la chiesa). Ma questa guerra mira non solo a cambiare l’economia per “purificarla” dalle nefaste ingerenze pubbliche, ma anche a trasformare in profondità la stessa società imponendole al forcipe la legge così poco naturale della concorrenza e dell’impresa. Continua a leggere
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LA NUOVA RAGIONE DEL MONDO- Critica alla ragione neoliberista- Introduzione italiana Pt1
Di Pierre Dardot e Christian Laval, DeriveApprodi 2013 Introduzione all'edizione italiana- Parte 1 “Il neoliberismo non è morto”, questa la prima frase dell'introduzione all'edizione francese del libro, pubblicato per la prima volta nel 2009. In quel momento si trattava di dissipare le illusioni scaturite dal fallimento di Lehman Brothers del settembre 2008. In Europa e negli Stati Uniti, erano infatti in molti a ritenere che la crisi finanziaria avesse suonato la campana a morto del neoliberismo e che fossimo sul punto di un “ritorno allo Stato” e alla regolazione dei mercati. Joseph Stiglitz solcava il pianeta proclamando la “fine del neoliberismo” e dei suoi principali esponenti politici, mentre il presidente francese Nicolas Sarkozy proclamava la riabilitazione dell'intervento dello Stato in economia. Queste illusioni, pericolose perché suscettibili di indurre a smobilitazione politica, erano ben lontane dallo stupirci, fondate com'erano su un errore diagnostico piuttosto condiviso che il presente lavoro aveva appunto per fine di correggere. Fraintendere la vera natura del neoliberismo, ignorarne la storia, non coglierne le ben radicate molle sociali e soggettive, significava votarsi alla cecità e a restare disarmati di fronte a ciò che non avrebbe tardato a sopraggiungere: lungi dal comportare un indebolimento delle politiche neoliberiste, la crisi è sfociata nel loro brutale rafforzamento, sotto forma di piani di austerità promossi da Stati sempre più attivi nell'incentivazione della logica della concorrenza dei mercati finanziari. Ci sembrava, e continua a sembrarci tutt'oggi più di prima, che l'analisi della genesi e del funzionamento del neoliberismo fosse la condizione per pensare una resistenza efficace, tanto su scala europea che globale perché la comprensione di questo rappresenta una posta in gioca strategica universale. L'errore diagnostico Dalla fine degli anni Settanta e l'inizio degli anni Ottanta, il neoliberismo viene generalmente interpretato come un'ideologia e una politica economica direttamente ricavata da questa ideologia, il cui nocciolo duro sarebbe costituito dall'identificazione del mercato a una realtà naturale. Stando a tale ontologia naturalistica, basterebbe lasciare a se stessa questa realtà per raggiungere equilibrio, stabilità, crescita. Poiché ogni intervento statuale non può fare altro che sregolare e perturbare un corso altrimenti spontaneo, occorrerebbe dunque incoraggiare un atteggiamento astensionista in questo ambito. Così inteso, il neoliberismo si presenta come la mera riabilitazione del laissez-faire. Considerato nella sua messa in pratica, lo si è anzitutto analizzato in modo assai limitato, come ha fatto notare con perspicacia Wendy Brown: “Come uno strumento della politica economica di uno Stato, con, da un lato, lo smantellamento degli aiuti sociali, della progressività dell'imposta e di altri strumenti distributivi della ricchezza; e dall'altro la stimolazione di un'attività scevra da vincoli del capitale, attraverso la deregolamentazione del sistema sanitario, del lavoro, e delle politiche ambientali”. Quando si è concesso che, effettivamente, c'è un “intervento”, lo si è fatto unicamente per indicare l'azione con la quale lo Stato abdica a parte della propria missione, indebolendo i servizi pubblici dei quali in precedenza aveva l'appannaggio. Un “interventismo” puramente negativo, dunque, che non sarebbe altro che il risvolto politico dell'organizzazione da parte dello Stato della sua stessa ritirata, un anti-interventismo di principio. Continua a leggere
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Filosofia e guerra nel lavoro di Grégoire Chamayou
di RICCARDO ANTONIUCCI
Dopo aver in “Les chasses à l’homme” (2010) scritto la storia delle operazioni di caccia all’uomo, il giovane filosofo francese Grégoire Chamayou è passato con “Théorie du drone” ad analizzare gli effetti derivanti dalla nuova tecnologia militare del drone. Dividendo la sua analisi nella consueta tripartizione disciplinare foucaultiana (sapere, potere, sé), Chamayou ricostruisce il profilo non solo di una tecnologia militare, non solo di una tecnica di guerra, ma di un vero e proprio dispositivo di potere(-sapere) che assicura e rinforza la forma occidentale contemporanea di governo.
Chiunque abbia subito, una volta o l’altra, il fascino del celebre aforisma nietzscheano circa la necessità che la filosofia si trasformi un campo di battaglia non potrà non apprezzare l’ultimo lavoro di Grégoire Chamayou (Théorie du drone, La Fabrique, 2013)* quando dimostra che, specularmente, un campo di battaglia può fare da base per l’esercizio della attività filosofica.
Come il precedente Les chasses à l’homme (in italiano Le cacce all’uomo, Manifestolibri, 2010), anche questo lavoro si rifà a un approccio multidisciplinare, al limite tra la filosofia e il reportage giornalistico, che forse non sarebbe errato definire “inchiesta teorica” e che accresce l’interesse per l’attività di questo giovane filosofo classe 1976.
Al centro di Théorie du drone vi sono, com’è intuibile, le modalità di sviluppo della guerra contemporanea, analizzate allo scopo di trarne una teoria. Nel senso da dare a quest’ultimo termine sta tutto il lavoro del libro. Quello di Chamayou non è un manuale militare, infatti, né un trattato morale sulla guerra. Piuttosto, si tratta di un lavoro che si inscrive nel solco della Teoria del partigiano di Carl Schmitt: l’ipotesi, in una parola, consiste nell’affermare che, così come la guerra partigiana, o guerra di guerriglia, si è rivelata un paradigma del politico del Novecento, anche le nuove tecnologie militari introdotte in questo inizio di secolo incidono sulle forme della politica contemporanea. Continua a leggere
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