LA NUOVA RAGIONE DEL MONDO- Critica alla ragione neoliberista- Introduzione italiana Pt1

 

Di Pierre Dardot e Christian Laval, DeriveApprodi 2013
Introduzione all'edizione italiana- Parte 1
319146_10150291792978197_319916653196_7894148_1443155141_nIl neoliberismo non è morto”, questa la prima frase dell'introduzione all'edizione francese del
libro, pubblicato per la prima volta nel 2009. In quel momento si trattava di dissipare le illusioni
scaturite dal fallimento di Lehman Brothers del settembre 2008. In Europa e negli Stati Uniti,
erano infatti in molti a ritenere che la crisi finanziaria avesse suonato la campana a morto del
neoliberismo e che fossimo sul punto di un “ritorno allo Stato” e alla regolazione dei mercati.
Joseph Stiglitz solcava il pianeta proclamando la “fine del neoliberismo” e dei suoi principali
esponenti politici, mentre il presidente francese Nicolas Sarkozy proclamava la riabilitazione
dell'intervento dello Stato in economia.
Queste illusioni, pericolose perché suscettibili di indurre a smobilitazione politica, erano ben
lontane dallo stupirci, fondate com'erano su un errore diagnostico piuttosto condiviso che il
presente lavoro aveva appunto per fine di correggere. Fraintendere la vera natura del
neoliberismo, ignorarne la storia, non coglierne le ben radicate molle sociali e soggettive,
significava votarsi alla cecità e a restare disarmati di fronte a ciò che non avrebbe tardato a
sopraggiungere: lungi dal comportare un indebolimento delle politiche neoliberiste, la crisi è
sfociata nel loro brutale rafforzamento, sotto forma di piani di austerità promossi da Stati
sempre più attivi nell'incentivazione della logica della concorrenza dei mercati finanziari. Ci
sembrava, e continua a sembrarci tutt'oggi più di prima, che l'analisi della genesi e del
funzionamento del neoliberismo fosse la condizione per pensare una resistenza efficace, tanto su
scala europea che globale perché la comprensione di questo rappresenta una posta in gioca
strategica universale.

L'errore diagnostico

Dalla fine degli anni Settanta e l'inizio degli anni Ottanta, il neoliberismo viene generalmente
interpretato come un'ideologia e una politica economica direttamente ricavata da questa
ideologia, il cui nocciolo duro sarebbe costituito dall'identificazione del mercato a una realtà
naturale. Stando a tale ontologia naturalistica, basterebbe lasciare a se stessa questa realtà per
raggiungere equilibrio, stabilità, crescita. Poiché ogni intervento statuale non può fare altro che
sregolare e perturbare un corso altrimenti spontaneo, occorrerebbe dunque incoraggiare un
atteggiamento astensionista in questo ambito. Così inteso, il neoliberismo si presenta come la
mera riabilitazione del laissez-faire. Considerato nella sua messa in pratica, lo si è anzitutto
analizzato in modo assai limitato, come ha fatto notare con perspicacia Wendy Brown: “Come
uno strumento della politica economica di uno Stato, con, da un lato, lo smantellamento degli
aiuti sociali, della progressività dell'imposta e di altri strumenti distributivi della ricchezza; e
dall'altro la stimolazione di un'attività scevra da vincoli del capitale, attraverso la
deregolamentazione del sistema sanitario, del lavoro, e delle politiche ambientali”. Quando si è
concesso che, effettivamente, c'è un “intervento”, lo si è fatto unicamente per indicare l'azione
con la quale lo Stato abdica  a parte della propria missione, indebolendo i servizi pubblici dei
quali in precedenza aveva l'appannaggio. Un “interventismo” puramente negativo, dunque, che
non sarebbe altro che il risvolto politico dell'organizzazione da parte dello Stato della sua stessa
ritirata, un anti-interventismo di principio. 
Non è nostra intenzione contestare l'esistenza e la diffusione di tale ideologia, non più di quanto
lo sia negare che questa ideologia abbia nutrito le politiche economiche massicciamente
promosse negli anni di Reagan e Thatcher, trovando nel maestro di Wall Street , Alan
Greenspan, il suo adepto più entusiasta, con le conseguenze che conosciamo. Dall'altra parte,
quello che Joseph Stiglitz ha giustamente chiamato “fanatismo del mercato” è ciò che i lettori
del “Wall Street Journal”, dell' “Economist” o dei loro equivalenti in giro per il mondo, sanno
conservare meglio. Ma il neoliberismo non è affatto riducibile a un fanatico atto di fede nella
naturalità del mercato. Il grande errore che commettono coloro che annunciano “la morte del
neoliberismo” è confondere la rappresentazione ideologica che accompagna l'istituzione di
politiche neoliberiste con la normatività pratica che caratterizza specificatamente il
neoliberismo. Per questo, il relativo discredito che oggi intasca l'ideologia del lasseiz-faire non
impedisce in alcun modo al neoliberismo di prevalere più di prima in quanto sistema normativo
dettato di una certa efficacia, ovvero capace di orientare dall'interno la pratica effettiva dei
governi, delle imprese e di milioni di persone che non ne sono necessariamente coscienti. Sta
qui, appunto, il cuore del problema: com'è possibile che nonostante le ripercussioni
catastrofiche cui hanno portato le politiche neoliberiste, queste ultime siano sempre più attive
al punto da precipitare interi Stati e società in crisi politiche e regressioni sociali sempre
peggiori? Com'è possibile che, negli ultimi trent'anni, queste stesse politiche si siano sviluppate
e approfondite senza aver incontrato resistenze sufficienti a metterle in crisi?
La risposta non può ridursi ai semplici aspetti “negativi” delle politiche neoliberiste, ovvero alla
distruzione programmata delle regolamentazioni e delle istituzioni. Il neoliberismo non è
semplice distruzione regolativa, istituzionale, giuridica, è almeno altrettanto produzione di un
certo tipo di relazioni sociali, di forme di vita, di soggettività. Detto altrimenti, con il
neoliberismo ciò che è in gioco è né più né meno la forma della nostra esistenza, cioè il modo in
cui siamo portati a comportarci, a relazionarci agli altri e a noi stessi. Il neoliberismo definisce
una precisa forma di vita nelle società occidentali e in tutte quelle società che hanno intrapreso
il cammino verso la presunta modernità. Questa norma impone a ognuno di vivere in un
universo di competizione generalizzata, prescrive alle popolazioni di scatenare le une contro le
altre una guerra economica, organizza i rapporti sociali secondo un modello di mercato, arriva a
trasformare perfino l'individuo, ormai esortato a concepire se stesso come un'impresa. Da
pressoché un terzo di secolo, questa norma esistenziale presiede alle politiche pubbliche,
governa le relazioni economiche mondiali, trasforma le società e rimodella le soggettività. Le
circostanze di un simile successo normativo sono state descritte di frequente. A volte
privilegiando l'aspetto politico (la conquista del potere da parte delle forze neoliberiste), a volte
quello economico (l'ascesa del capitalismo finanziario globalizzato), altre l'aspetto sociale
(l'individualizzazione dei rapporti sociali a scapito delle forme di solidarietà collettiva, l'estrema
polarizzazione tra ricchi e poveri), altre ancora quello soggettivo (la comparsa di una nuova
tipologia di soggetto, lo sviluppo di nuove patologie psichiche). Si tratta delle dimensioni
complementari alla nuova ragione del mondo. Con questo dobbiamo intendere che siamo di
fronte a una ragione globale nel duplice senso del termine: una ragione che di colpo diventa
valida su scala mondiale e una ragione che, lungi dal limitarsi alla sfera economica, tende a
totalizzare, cioè a “fare mondo”, con un proprio specifico potere di integrazione di tutte le
dimensioni dell'esistenza umana. La ragione del mondo è anche, contemporaneamente, unaragione del mondo”.

Il neoliberalismo come razionalità

La tesi sostenuta in questo lavoro è che il Neoliberalismo, prima ancora di ideologia o di una
politica economica, sia fondamentalmente una razionalità, e che a questo titolo tenda a
strutturare e a organizzare non solo l'azione dei governanti, ma anche la condotta individuale dei
governati. La razionalità neoliberale ha per principale caratteristica quella della
generalizzazione della concorrenza come norma di comportamento e dell'impresa come modello
di soggettivazione. Qui non intendiamo usare il termine razionalità come un eufemismo, per
evitare di pronunciare la parola “capitalismo”. Il neoliberalismo è la ragione del mondo
contemporaneo, di un capitalismo sgombro di riferimenti arcaizzanti e pienamente assunto
come costruzione storica e come norma generale di vita. Il neoliberalismo può definirsi come
l'insieme dei discorsi, delle pratiche, dei dispositivi che determinano una nuova modalità di
governo degli uomini secondo il principio universale della concorrenza.
Il concetto di “razionalità politica” è stato elaborato da Foucault in stretta connessione con le
sue ricerche consacrate al problema della “governamentalità”. Nel riassunto del corso al Collège
de France tenuto da Foucault nel 1978-1979- e pubblicato con il titolo di Nascita della
biopolitica- si trova una presentazione del piano di analisi scelto per lo studio ndel
neoliberalismo: si tratta, dice in sostanza Foucault, di un “piano di analisi possibile: quello della
'ragione governamentale', vale a dire dei tipi di razionalità che sono utilizzati nei procedimenti
volti a dirigere la condotta degli uomini, mediante l'amministrazione statuale”.
In questo senso, la razionalità neoliberale è una razionalità “governamentale”. Bisogna peraltro
intendersi sul senso della nostra nozione di governo: “Si tratta, ben inteso, non del governo in
quanto istituzione, ma dell'attività che consente di guidare la condotta degli uomini entro un
quadro e mediante degli strumenti statuali”. Foucault torna molte volte sulla concezione di
governo come attività invece che come istituzione. Così nel corso al Collège de France intitolato
Du gouvernement des vivants, la nozione di governo è “intesa nel senso lato delle tecniche e
delle procedure tese a dirigere la condotta degli uomini”. O, ancora, nella prefazione alla Storia
della sessualità, rileggendo retrospettivamente le sue analisi delle pratiche punitive, Foucault
dice di essersi interessato per prima cosa ai procedimenti di potere, ossia “all'elaborazione e al
dispiegamento, dal XVII secolo in poi, di tecniche per governare gli individui, vale a dire percondurre la loro condotta”. Il termine “governamentalità” è stato espressamente introdotto
proprio per indicare le molteplici forme di questa attività con la quale alcuni uomini,
appartenenti più o meno a un governo, intendono condurre la condotta di altri uomini, cioè
governarli.
E ciò è talmente vero che il governo, lungi dall'affidarsi alla sola disciplina per raggiungere i
meandri più intimi dell'individuo, mira in ultima istanza a ottenere un autogoverno
dell'individuo stesso, cioè a produrre un determinato rapporto con se stessi. Nel 1982 Foucault
dirà di essersi sempre più interessato al “modo di azione che un individuo esercita su se stesso
attraverso le tecnologie del sé”, al punto di dover ampliare la propria originaria concezione della
governamentalità, troppo incentrata sulle tecnologie di esercizio di potere sugli altri: “Chiamo
'governamentalità'- scriverà l'autore- quelle tecnologie di dominio esercitate sugli altri e le
tecnologie del sé”. Governare, quindi, significa condurre la condotta degli uomini, purché si
tenga presente che tale condotta è sia quella che si adotta nei confronti di se stessi, sia quella che
si segue nei confronti degli altri.  È per questo che il governo richiede la libertà come
condizione di possibilità: governare non è governare contro la libertà o malgrado essa; è
governare per mezzo della libertà, cioè giocare attivamente sullo spazio di libertà lasciato agli
individui affinché si conformino autonomamente a determinate norme. 
Affrontare la questione del neoliberalismo a partire da una riflessione politica sul modo di
governo non è privo di impatto sulla sua comprensione. Anzitutto, questo consente di refutare le
analisi semplicistiche improntate al “ritiro dello Stato” di fronte al mercato, facendo emergere
che questa opposizione tra Mercato e Stato è uno dei principali ostacoli alla precisa
caratterizzazione del neoliberalismo. Contrariamente alla percezione immediata e all'idea troppo
semplicistica per la quale sarebbero i mercati che, dall'esterno, hanno conquistato gli Stati,
dettando loro le politiche da perseguire, affermiamo che piuttosto gli Stati- soprattutto quelli più
forti- ad avere introdotto e universalizzato nell'economia, nella società e finanche al proprio
interno, la logica della concorrenza e il modello dell'impresa. Non dimentichiamoci che
l'espansione del mercato della finanza, come del finanziamento del debito pubblico seui mercati
delle obbligazioni sono il risultato di politiche deliberate.  È flagrante nella crisi attuale in
Europa, dove gli Stati portano avanti politiche molto “interventiste” che mirano a modificare in
profondità le relazioni sociali, la funzione delle istituzioni di protezione sociale e educative, a
orientare i comportamenti attraverso una concorrenza generalizzata, a fronte del fatto che gli
Stati sono a loro volta collocati in un contesto concorrenziale regionale e globale che condiziona
la loro azione. Ancora una volta testiamo le analisi di Marx, Weber, Polanyi secondo le quali il
mercato moderno non funziona da solo, è sempre stato sorretto dallo Stato. Questo consente poi
di capire che è una stessa logica normativa a presiedere alle relazioni di potere e alle modalità di
governo, a livelli e in ambiti molto diversi dalla vita economica, politica e sociale.
Contrariamente a una lettura del mondo sociale che lo divide in ambiti autonomi e lo frammenta
in microcosmi di tribù separate, l'analisi governamentale sottolinea il carattere trasversale delle
forme di potere esercitate dentro una società in una data epoca.

 

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