Ribaltare Clausewitz. La guerra in Michel Foucault e Deleuze-Guattari.

di Massimiliano Guareschi

Per chi parla di guerra, a qualsiasi livello, citare von Clausewitz è quasi un obbligo, un’abitudine o un riflesso condizionato. E così, prima o poi, in tutti i discorsi che toccano questioni belliche la famosa massima “la guerra è la continuazione della politica con altri mezzi”salta fuori, e magari si finisce con il ribaltarla, soprattutto per segnalare i cambiamenti intervenuti dal tempo delle guerre napoleoniche. Ribaltare Clausewitz significa allora proiettare gli schemi del generale prussiano, ovviamente reinterpretati senza soverchie preoccupazioni filologiche e alla luce di alcune ipotesi teoriche “forti”, sulla storia universale fino a raggiungere gli scenari geopolitici, sociali e tecnologici del Novecento. Da “Conflitti globali”, n°1, Shake: http://www.shake.it/confl1.html

Sul piano geopolitico, la seconda metà degli anni Settanta e l’inizio degli anni Ottanta del secolo passato scorrono nel solco del declinante ordine bipolare, fra insorgenze della Guerra fredda e segni, sempre più evidenti, dell’incapacità di uno dei due contendenti nel tenere il passo dell’altro. Per quanto riguarda l’Europa, la guerra sembra essere ormai consegnata, nelle sue forme più tipiche, alla dimensione della memoria, mentre il presente si colloca lungo l’orizzonte di mutual destruction inscritto nella dinamica del conflitto nucleare, che priva la guerra dei suoi tratti di riconoscibilità più tipici, inducendo a riflessioni che spesso abbandonano il terreno più specificamente politico per configurarsi, assumendo una prospettiva quasi biologica, in termini di “sopravvivenza della specie”. Certo, in quel periodo si parla molto di guerriglia, di insurrezione, di lotte di liberazione, ma in riferimento all’altrove degli spazi della decolonizzazione o di “periferie” nelle quali i vincoli dell’ordine bipolare appaiono meno stringenti. Questo, in sintesi, il contesto nel quale una formula, “ribaltare Clausewitz”, con ovvio riferimento al noto adagio “La guerra è la continuazione della politica con altri mezzi” emerge dalla tematizzazione della guerra di autori che hanno fortemente rinnovato i quadri della riflessione filosofica e politica del Novecento, Michel Foucault da una parte, Gilles Deleuze e Félix Guattari dall’altra, legati da evidenti affinità teoriche ma che in proposito, come si avrà modo di vedere, manifesteranno significative divergenze di prospettiva.

La guerra delle razze

Nel 1976 in Francia sembra manifestarsi un particolare interesse nei confronti di Carl von Clausewitz. In quell’anno, infatti, sono pubblicati i due volumi di Penser la guerre. Clausewitz, in cui Raymond Aron proietta sullo scenario dello scontro fra Stati uniti e Unione sovietica la concettualizzazione della guerra proposta dal generale prussiano (1). Sempre nel 1976, Michel Foucault tiene al Collège de France un corso, dal titolo Difendere le società, al cui centro si colloca l’esplicita intenzione di ribaltare l’assunto di Carl von Clausewitz secondo cui “La guerra è la continuazione della politica con altri mezzi” (2). Punto di partenza del discorso foucaultiano è l’esigenza di riproblematizzare, a partire da un’inversione allo stesso tempo di scala e di senso, del concetto di “potere” in rottura con i modelli sedimentati da secoli di riflessione filosofico-giuridica.(3) In tale prospettiva, la chiave di intelligibilità del potere deve essere cercata non sul piano della sovranità, della legge e dell’autorità ma al livello molecolare di una “microfisica” volta a sondare la dinamica dei rapporti di forza che reggono tutte le relazioni caratterizzate da qualche forma di asimmetria.

Nella sua ricerca, Foucault intende smarcarsi da una concezione economicistica delle relazioni di potere che, in termini, del tutto diversi, caratterizzerebbe le prospettive sia liberali sia marxiste. In ambito liberale si procederebbe a un’equiparazione delle dinamiche di potere alla circolazione dei beni come mostra il frequente ricorso alla declinazione pubblicistica di concetti giusprivatistici come il contratto, la delega, l’alienazione. Diversamente, in ambito marxista la sintassi del potere tenderebbe a ricalcarsi, per ratificarla e stabilizzarla, sulla struttura dei rapporti di produzione. Nelle parole di Foucault: “Nel primo caso abbiamo, se volete, un potere politico che troverebbe nel processo dello scambio, nell’economia della circolazione dei beni, il suo modello formale. Nel secondo, un potere politico che avrebbe nell’economia la sua ragion d’essere storica, il principio della sua forma concreta e del suo funzionamento attuale”.(4) Per disegnare un’alternativa ai paradigmi “economicisti”, che assuma quindi il potere come autonomo oggetto di indagine, vengono quindi individuati due possibili strumenti analitici, la repressione e la guerra:

A partire dal momento in cui si cerca di liberarsi dagli schemi economicisti per analizzare il potere, ci si trova immediatamente di fronte a due ipotesi forti: da una parte, il meccanismo del potere sarebbe la repressione […] dall’altra, la base del rapporto di potere sarebbe lo scontro bellicoso delle forze […]. Queste due ipotesi non sono inconciliabili, al contrario; sembrano anzi concatenarsi in modo abbastanza verosimile. Dopo tutto, la repressione non sarebbe ancora la conseguenza politica della guerra, un po’ come l’oppressione, nella teoria classica del diritto politico, era l’abuso della sovranità nell’ordine giuridico? (5)

In “Bisogna difendere la società” il ricorso alla coppia repressione-guerra come criterio guida per un rinnovato approccio al potere non procede privo di perplessità. In particolare, si può notare come Foucault in quegli stessi anni si fosse impegnato in una serrata critica al concetto di “repressione”, al suo carattere eminentemente negativo, che avrebbe trovato una compiuta formulazione in La volontà di sapere, uscito proprio nel 1976.(6) Per quanto riguarda la guerra si potrebbe forse fare un discorso per alcuni versi analogo, in quanto il proposito di Foucault di dedicarsi negli anni seguenti a studi di argomento bellico e militare, sembra essere stato in seguito lasciato cadere, per il prevalere di altri interessi o forse, più probabilmente, per l’entrata in crisi della prospettiva di ricerca da cui essi procedevano.(7)

Tornando a von Clausewitz, Foucault afferma che “il potere è la guerra, la guerra continuata con altri mezzi”.(8) Il ribaltamento della formula del generale prussiano si presenta come un artificio retorico utile per sottolineare come ogni relazione di potere si fondi su un rapporto di forza storicamente stabilito attraverso la guerra. La politica, quindi, sarebbe chiamata non a riassorbire le fratture della guerra ma a perpetuare una condizione di squilibrio e asimmetria ricodificando continuamente gli esiti delle armi nel linguaggio delle consuetudini, delle leggi e delle istituzioni. È in tale sequenza che si manifesta la correlazione fra guerra e repressione. Ciò significa che “all’interno della ‘pace civile’ ovvero in un sistema politico, le lotte politiche, gli scontri a proposito del potere con il potere, per il potere, le modificazioni dei rapporti di forza […], non dovrebbero che essere interpretate come la prosecuzione della guerra”.(9)

L’utilizzo della guerra come operatore per analizzare la pace sociale evoca immediatamente il nome di Thomas Hobbes, che dalla guerra partiva per dedurre la possibilità dell’ordine artificiale garantito dal Leviatano. Foucault rigetta immediatamente una simile associazione in quanto a suo parere nella costruzione hobbesiana la guerra, malgrado quanto comunemente si pensi, non svolgerebbe alcun ruolo. Tale rilievo non rimanda semplicemente al carattere ipotetico del bellum omnium contra omnes, ma soprattutto al fatto che nello stato di natura di cui parla Hobbes in realtà non si giunge mai alle vie di fatto, al dispiegamento materiale del conflitto. E in effetti nel Leviatano non si parla di guerra quanto di “stato di guerra” per indicare il gioco di rappresentazioni incrociate, la “diplomazia infinita” in forza delle quali ciascun individuo, anche il più forte, giunge alla conclusione di non essere in grado di garantirsi la sicurezza dagli attacchi altrui:

Nella guerra primitiva di Hobbes non ci sono battaglie, non c’è sangue, non ci sono
cadaveri. Ci sono solo rappresentazioni, manifestazioni, segni, espressioni enfatiche, astute, menzognere; ci sono inganni, volontà travisate nel loro contrario, inquietudini mascherate da certezze […]. Ma non siamo realmente in guerra. In ultima analisi, ciò significa che lo stato di guerra secondo Hobbes non può essere caratterizzato come una stato di ferinità bestiale in cui gli individui si divorerebbero fra loro.(10)

Per Foucault, quindi, Hobbes, lungi dal presentarsi come il teorico dei rapporti fra guerra e costituzione del potere politico, appare come un autore determinato, al contrario, a “eliminare la guerra in quanto realtà storica […] dalla genesi della sovranità”.(11) Ma quale senso attribuire a un simile tentativo volto a neutralizzare la guerra all’interno del discorso inerente l’obbligazione politica? Per rispondere alla domanda a parere di Foucault è indispensabile stabilire contro chi abbia pensato Hobbes. Il discorso, a questo punto, non può che spostarsi sulle guerre di religione, su Beemoth, la bestia marina contro la quale viene invocato il mostro terrestre Leviatano. In tale contesto, Foucault individua la circolazione di un discorso storico centrato sulla guerra e l’invasione disponibile a una pluralità di usi e appropriazioni, funzionale a una duplice contestazione, aristocratica e popolare, del potere regio. Si parla di anglo-sassoni e dell’invasione normanna che avrebbe insediato sull’isola un nuovo sovrano, Guglielmo il conquistatore, e una nuova aristocrazia proveniente da oltremanica. La stessa narrazione, declinata in termini differenti, può funzionare come discorso sia di legittimazione dell’assolutismo regio in base al diritto di conquista, sia di svelamento dell’origine usurpatoria dell’ordine monarchico e aristocratico, con conseguente richiamo al diritto di resistenza dei discendenti degli oppressi sassoni.

È contro un simile “uso politico” della storia che per Foucault opererebbe il tentativo hobbesiano di neutralizzare le guerre reali, ricorrendo all’antidoto concettuale dello “stato di guerra”, per delineare una condizione caratterizzata dall’assenza di vincitori e vinti, dominanti e dominati, in quanto la subordinazione alla “terzietà” del sovrano, fondata sulla paura, svuota e scongiura ogni opposizione binaria all’interno del corpo politico. Nello stato di natura, qualsiasi rapporto di forza ha un carattere contingente, instabile e reversibile. Di conseguenza nessun uomo può essere certo della propria sicurezza, nemmeno il più forte dal punto di vista fisico, in quanto un rivale
potrebbe prevalere, magari cogliendolo di sorpresa o servendosi dell’inganno. Nel modello elaborato da Hobbes, l’impossibilità di “concludere” la guerra di tutti contro di tutti, di cristallizzare rapporti di forza che garantiscano una condizione di sicurezza spingerebbe i singoli a rinunciare al loro diritto assoluto su tutto. In tal senso, le diverse modalità di formazione della sovranità presentate nel Leviatano, istituzione ed acquisizione, vengono riportate a una comune matrice, quella della volontà di sottomettersi a un potere superiore per avere salva la vita, che trova una eloquente esemplificazione nella soggezione dell’infante ai genitori. L’obbligazione politica, quindi per Hobbes, deve essere svuotata di qualsiasi contenuto storico – ritenuto terreno ambiguo e ambivalente, in grado di supportare sia la legittimazione delle istanze di potere sia le rivendicazioni antagoniste di gruppi e fazioni – per essere fondata sulla funzionalità dei meccanismi artificiali preposti a garantire lo scambio obbedienza-protezione.

Per Foucault l’individuazione dell’obiettivo polemico di Hobbes coincide con la sottolineatura di una linea, denominata storico-politica, che appare affermarsi a partire dal XVII secolo come alternativa ai modelli filosofico-giuridici della sovranità. In essa il tema del conflitto fra le razze svolge un ruolo centrale e contribuisce a stabilire una visione tensiva, dicotomica e conflittuale della società, vista come attraversata in permanenza da un irriducibile conflitto fra segmenti della popolazione che trova origine dalla frattura indotta dalla conquista, dall’asimmetria introdotta dall’esito di una battaglia storicamente situata. In tale ottica, si potrebbe dire, la guerra non è mai finita, ma continua sotto il sembiante della pace, come relazione sociale permanente: la pace come continuazione della guerra con altri mezzi.

In “Bisogna difendere la società” Foucault segue i passaggi e le metamorfosi del discorso storico-politico nello spazio e nel tempo. L’analisi si sposta così dall’Inghilterra alla Francia, dove al centro della storia nazionale si collocano i conflitti e le convergenze fra galli, romani e germani. Un livello compiuto di elaborazione del discorso della guerra delle razze sarà proposto nel XVIII secolo da un autore su cui Foucault si sofferma a lungo, Henry de Boulainvilliers, capofila dell’opposizione nobiliare all’assolutismo borbonico, la cui problematica si configura nei seguenti termini: come ha potuto l’aristocrazia franca vittoriosa perdere il potere e i privilegi derivanti dalla conquista stretta nella morsa dell’alleanza fra assolutismo regio e borghesia gallo-romana? Con Sieyès emerge un’ulteriore articolazione del discorso storico-sociale, in una prospettiva tuttavia che vede il terzo stato ormai coincidere con la nazione e la dualità in procinto di risolversi attraverso la rimozione dei residui aristocratici: “Perché non rimandare nelle foreste della Franconia tutte quelle famiglie che conservano la folle pretesa di discendere dalla razza dei conquistatori e di essersi insediati in forza di diritti di conquista”.(12) Una simile prospettiva troverà quindi un più esteso sviluppo in autori ottocenteschi quali Guizot e i fratelli Thierry, che a partire dall’“unificazione” postrivoluzionaria della nazione si proporranno di ricostruire, alla luce delle rinnovate esigenze del metodo storico, la guerra delle razze intorno alla quale si era articolata per secoli la storia della Francia. La reazione sgomenta di Augustin Thierry ai moti del 1848, che segnavano l’emergere di quella che ai suoi occhi era un’inconcepibile frattura nel corpo sociale, mostra come per lo storico la chiusura del ciclo rivoluzionario si dovesse tradurre in una completa espulsione della guerra dalla trama di relazioni della nazione. Con i fratelli Thierry, inoltre, il discorso storico-sociale passa per una profonda rielaborazione che condurrà a una vera e propria biforcazione. Con Augustin Thierry la guerra delle razze tende a perdere i contenuti più propriamente “etnici” per configurarsi in termini di conflitto di classe, mentre il contrario avviene con il fratello Amédée, il cui discorso si incammina verso una prospettiva modernamente razzista.

Sintetizzando, per Foucault le analisi centrate sulla guerra della razze si presentano come opzione teorica alternativa rispetto alla tradizione filosofico-giuridica centrata sulla sovranità, la rappresentanza e il contratto. Le specificità introdotte dal discorso storico-sociale possono essere riassunte come segue. In primo luogo, la guerra di cui si parla non è ipotetica ma storica, un evento collocato precisamente all’interno delle vicende di un determinato paese, i cui effetti si protraggono nel tempo definendo il terreno di disputa fra contrapposti schieramenti. Nella filigrana della pace apparente, la guerra costituisce quindi il principio di intelligibilità delle relazioni sociali e delle istituzioni. Un ulteriore elemento chiave del discorso storico-sociale è rappresentato dalla esplicita parzialità del soggetto che lo pronuncia: “Chi racconta la storia, chi ritrova la memoria e scongiura l’oblio è […] necessariamente situato da una parte o dall’altra; è nella battaglia, ha degli avversari, si batte per ottenere una specifica vittoria”.(13)

Ai modelli filosofico-giuridici che ambiscono alla neutralità e all’universalità Foucault contrappone i saperi situati e belligeranti del discorso storicosociale. Nel progetto genealogico foucaultiano, incentrato sulla sottolineatura del nesso saperi-poteri, la guerra viene presentata come il luogo di gestazione di quei discorsi che assumono la loro internità ai rapporti di forza come criterio di verità. Ne consegue un’apologia dello storicismo, individuato come stile di pensiero che anziché esorcizzare il conflitto assume la guerra come elemento fondamentale dei processi storici e delle dinamiche sociali. Per Foucault “si potrebbe facilmente mostrare come, dal XIX secolo in avanti, tutte le grandi filosofie siano state, in un modo o nell’altro, antistoriciste. Si potrebbe anche mostrare come tutte le scienze umane si fondino […] sul fatto di essere antistoriciste”.(14) La stessa storiografia, da questo punto di vista, nei ricorrenti richiami a superare la superficie dell’histoire bataille per attingere il livello delle strutture economiche e sociali testimonierebbe della tendenza alla rimozione della guerra che caratterizza le scienze sociali. Diversamente lo storicismo, così come definito da Foucault, afferma l’ineludibile legame tra sapere storico e pratica della guerra, muovendosi al di fuori di un’idea che permeerebbe da millenni il sapere occidentale e secondo la quale “il sapere e la verità non possono non appartenere al registro dell’ordine e della pace, e che non si possono mai ritrovare dalla parte della violenza, del disordine e della guerra”.(15)

Nel discorso sulla guerra delle razze sviluppato da Foucault in “Bisogna difendere la società” possono essere colti punti contatto e incroci con gli itinerari di ricerca di altri autori, per esempio con il Frederick Meinecke di Le origini dello storicismo, ma soprattutto con Marx, che a più riprese ha indicato in Augustin Thierry e nella storiografia francese incentrata sulla guerra delle razze il modello agonale sul quale avrebbe elaborato il concetto di “lotta di classe”.(16) A tal proposito si può rilevare come il confronto con il marxismo rappresenti forse il principale sottotesto del corso. Del resto a più riprese, in testi minori collocabili proprio intorno al 1976, Foucault afferma come la tradizione marxista abbia approcciato il concetto di “lotta di classe” privilegiando la “classe” e lasciando cadere le questioni legate alla lotta:

A colpirmi, nella maggior parte dei testi se non di Marx quantomeno dei marxisti è il fatto che, con l’eccezione forse di Trotskij, viene quasi sempre passato sotto silenzio ciò che si intende per lotta quando si parla di lotta di classe. Che significa lotta? Conflitto dialettico? Scontro politico per il potere? Battaglia economica? Guerra? La società civile attraversata dalla lotta di classe non è forse la guerra continuata con altri mezzi? (17)

A interessare Foucault sono i punti di vista prospettici, collocati nelle mischie e non sulle alture da cui si suppone di avere una visione superiore, neutra e imparziale, della battaglia. La dialettica, da questo punto di vista viene esplicitamente individuata non come la concettualizzazione filosofica del discorso storico-sociale ma nei termini di una sua colonizzazione e neutralizzazione all’interno della logica della contraddizione e della ricomposizione: “La dialettica hegeliana, e con essa penso tutte quelle che l’hanno seguita, deve essere compresa […] come la colonizzazione e la pacificazione autoritaria da parte della filosofia e del diritto, di un discorso filosofico e politico che è stato un tempo una constatazione, una proclamazione e una pratica della guerra sociale”.(18) Una ricerca che a prima vista può apparire come un’esercitazione erudita su negletti autori del passato a una più attenta considerazione rivela quindi un’intentio politica direttamente calata nell’attualità. La stessa polemica non tanto con Marx quanto con il marxismo, nelle sue versioni più dogmaticamente dialettiche, rimanda al contesto politico-ideologico degli anni Settanta, e alle vicende e ai dibattiti che in quel periodo coinvolgono il Foucault militante, dalla fondazione dell’Università di Vincennes al Groupe d’information sur le prisons. Ricapitolando, quindi, si può osservare come la guerra in Foucault sia chiamata in causa per due ordini di problemi, strettamente correlati. Da una parte come operatore analitico, come ipotesi concettuale, in grado di supportare un’analisi del potere alternativa alle concezioni filosofico-giuridiche centrate sulla sovranità e il contratto; dall’altra come tratto distintivo di una tipologia di discorso calato nelle lotte, da recuperare in chiave attualizzante, che rifiuta ogni postura universale per affermare la propria disposizione partigiana.

La presa di distanza da Hobbes, tuttavia, sembra avvenire sulla base della condivisione di un terreno comune, in base al quale la guerra viene utilizzata in forme differenti per sondare l’ordine interno, la pace civile all’interno delle frontiere del regno. La riflessione hobbesiana sulla guerra, come noto, si concentra soprattutto sulla questione della costruzione dell’obbligazione politica dei sudditi nei confronti del sovrano. Lo schema proposto per quanto concerne il commonwealth d’altra parte non è estendibile, nonostante le apparenti analogie, all’arena “internazionale”. Assolutamente diverso è infatti lo “stato di natura” che vige nei rapporti fra i regni, dove le diversità ponderali che intercorrono fra i vari soggetti si caratterizzano per la possibilità di stabilire rapporti reciproci improntati alla prevedibilità: il piccolo stato non ha alcuna possibilità, anche servendosi dell’inganno o di qualche bizzarro escamotage, di prevalere su una formazione statuale di dimensioni e potenza maggiori. Ciò, peraltro spiega come lo stato di natura, nell’arena internazionale, possa condurre a una forma di ordine, attraverso la stabilizzazione di un “equilibrio” non contingente, prescindendo dal ricorso all’artificio del Leviatano per affidarsi alla cristallizzazione “naturale” di un bilanciamento di forze. Foucault, da parte sua, valorizza la guerra come forma limite del conflitto, come criterio ermeneutico che consente di problematizzare la pacificazione dello spazio all’interno delle proprie frontiere rivendicata dallo stato. Da qui la valorizzazione di quelle modalità di discorso che, di contro alle rappresentazioni unitarie del regno, colgono nella filigrana della pace sociale il perdurare di una guerra mai conclusa. Del resto a parere di Foucault il rovesciamento della massima secondo cui “La guerra è la continuazione della politica con altri mezzi” altro non farebbe che ripristinare un assunto che lo stesso generale prussiano intendeva ribaltare affermando la piena statalizzazione della guerra. In tale contesto, la politica di cui la guerra può essere prosecuzione è solo quella estera. Il processo a cui si fa riferimento è quello che aveva provveduto ad escludere la guerra dal territorio statuale per proiettarla al di fuori delle frontiere. In sintesi, il monopolio dell’uso legittimo della forza all’interno del territorio di cui parla Weber, che necessariamente passa per la “cancellazione dal corpo sociale, dal rapporto fra uomo e uomo, tra gruppo e gruppo, di ciò che si potrebbe chiamare ‘guerra quotidiana’ e che veniva giustappunto chiamata ‘guerra privata’”. (19) È nei confronti della neutralizzazione della dimensione politica interna, quindi, che reagisce il discorso foucoultiano. Diversamente, alla guerra interstatale, come contrapposizione degli stati nell’agone internazionale, o alla sua riformulazione a partire dall’emergere di differenti forme di organizzazione del potere non viene riservata particolare attenzione.

Al di là delle differenze, Hobbes e Foucault paiono condividere il medesimo posizionamento all’interno della spazialità politica dello stato moderno, in fase aurorale l’uno, crepuscolare l’altro. Del resto, anche l’analisi della società disciplinare, così come su un altro registro dei regimi biopolitici, si colloca, proprio per la dimensione storica che assume, all’interno delle logiche
di quei “contenitori di potere confinato”, per usare l’espressione di Anthony Giddens, che stabiliscono una chiara demarcazione fra il “dentro” e il fuori”, l’interno della polizia e l’esterno della guerra. La riflessione sulla guerra di Deleuze e Guattari, diversamente, come si avrà modo di vedere, procede lungo altre linee.

Macchina da guerra e apparato di cattura

Delirare la storia, addirittura la storia universale, questo il progetto che da Antiedipo arriva a Mille piani. (20) Il discorso di Deleuze e Guattari si sviluppa su scansioni temporali assai ampie, all’interno delle quali l’ordine nazionaleinternazionale in cui resta confinata l’analisi foucoultiana costituisce un segmento fra gli altri. I luoghi e i tempi in cui viene “ambientato” il rovesciamento della formula di Clausewitz, di conseguenza, sono assai diversi. In scena è un canovaccio storico-universale che ha due protagonisti principali, l’apparato di cattura (o stato) e la macchina da guerra nomade, due differenti concatenamenti colti nell’intrinseca instabilità delle loro relazioni. In Mille piani Deleuze e Guattari approcciano la guerra a partire da una prospettiva non tanto storica quanto mitica o mitologica. La loro guida è Georges Dumézil, per il quale la sovranità politica indoeuropea avrebbe due poli, magico e giuridico: rex e flamen, raj e brahman, Romolo e Numa, Odino Tyr, Varuna e Mitra. Da tale schema sarebbe esclusa la guerra, che si aggiunge come terzo polo, venendo da altrove: Tullo Ostilio, Thor e Indra. Per Deleuze e Guattari la macchina da guerra, composizione di uomini, armi e animali, è invenzione dei nomadi. Lo stato in quanto tale, non possiede fra le proprie funzioni la guerra, che deve sottrarre ai nomadi, catturando la loro macchina e trasformandola in qualcosa di diverso: l’esercito, la funzione militare. I grandi regni che sembrano emergere quasi dal nulla agli albori della storia, in Egitto, Mesopotamia, Creta o India, a un certo punto sono travolti da orde armate di carro da combattimento e arco composto che sembrano provenire dal nulla – hyksos, hurriti, cassiti, ittiti, ariani, micenei, sciti – rispetto alle quali si rivelano impotenti. Salvo poi imparare la lezione, assimilando le innovazioni dei nomadi per dotarsi di una potenziale militare che permetterà in molti casi agli stati di prendersi notevoli rivincite. Tuttavia, nel corso dei secoli, dalle steppe e dai deserti si assisterà a periodiche irruzioni oltre il limes degli stanziali di successive incarnazioni della macchina da guerra nomade: gli unni, gli arabi, i turchi, i manchù e soprattutto i mongoli, l’orda per eccellenza.

Si potrebbero rilevare le coincidenze fra il quadro tracciato dai due filosofi francesi e le posizioni espresse da un accreditato storico militare come John Keegan: “Intorno alla metà del II millennio a.C. i popoli che avevano imparato le tecniche di costruzione e uso del carro e dell’arco composto scoprirono […] che contro le tecniche da loro ideate […] i difensori delle terre colonizzate non erano in grado di opporre resistenza. […] I popoli giunti sui carri insegnarono agli assiri e agli egizi sia le tecniche sia l’ethos della guerra imperialista ed entrambe le potenze […] ne adottarono l’idea”. (21) Per Deleuze e Guattari la cattura della macchina da guerra e la sua istituzionalizzazione militare, tuttavia, non procede in modo lineare assumendo una configurazione compiuta e definitiva ma si presenta come un processo sempre aperto, reversibile, attraversato da una continua tensione. Ciò dipenderebbe dal fatto che la macchina da guerra e l’apparato di cattura dipendono da logiche diverse,
tanto che la loro composizione appare intrinsecamente problematica e instabile.

La macchina da guerra è invenzione dei nomadi, è il loro modo di occupare lo spazio desertico e non ha necessariamente a che fare con la guerra. O meglio, si correla in termini esclusivi alla guerra solo quando viene appropriata da un apparato di stato. La macchina da guerra non è quindi definita dalla guerra, che incontra nel momento in cui il suo moto entra in collisione con le striature che i sedentari hanno posto sul suo cammino, ma dalla modalità di distribuzione e composizione dei nomadi nello spazio liscio del deserto:

La guerra ne deriva necessariamente perché la macchina da guerra si scontra con gli
stati e le città, ossia con le forze (di striatura) che si oppongono all’oggetto positivo: da quel momento la macchina da guerra ha per nemico lo stato, la città, il fenomeno statale urbano […]. È allora che diventa guerra […]. L’avventura di Attila o Gengis Khan mostra bene questa successione dell’oggetto positivo e negativo. (22)

Per cogliere il senso del discorso sviluppato in proposito da Deleuze e Guattari può risultare utile richiamare l’attenzione su un noto passaggio del Vom Kriege in cui Clausewitz sottolinea, con rigida consequenzialità, come la decisione della guerra spetti al difensore e non all’attaccante, in quanto quest’ultimo sarebbe ben lieto di non incontrare alcuna resistenza nell’incedere verso la realizzazione dei suoi scopi. Con le sue parole: “Se cerchiamo filosoficamente l’origine della guerra, non è nell’attacco che vediamo sbocciarne il concetto, poiché esso non ha per scopo la lotta […]; ma ha invece origine nella difesa, poiché questa ha per scopo assoluto la lotta, essendo il respingere l’attacco e il combattere una cosa unica”.(23) La macchina da guerra per Deleuze e Guattari nasce come aggregazione numerica, in rottura con l’organizzazione a stirpi e lignaggi, nella steppa o nel deserto. È il suo aspetto aritmetico:

Ovunque la macchina da guerra presenta un curioso processo di replica o sdoppiamento aritmetico, come se operasse su due serie asimmetriche e diseguali. Da una parte infatti i lignaggi o le tribù sono organizzati e ricomposti numericamente; la composizione numerica si sovrappone ai lignaggi per fare prevalere il nuovo principio. Dall’altra, nello stesso tempo, si estraggono uomini da ogni lignaggio per formare un corpo numerico speciale. Come se la nuova composizione numerica del corpo lignaggio non potesse avere successo senza la costruzione di un corpo proprio, a sua volta numerico. […] Il corpo sociale non può essere numerato senza che il numero
formi un corpo speciale. (24)

Gengis Khan, nel predisporre la sua formidabile orda procede a organizzare numericamente lignaggi e guerrieri “sottomettendoli a cifre e capi (decine e decurioni, centinaia e centurioni, migliaia e chiliarchi) estraendo però da ogni lignaggio aritmetizzato un piccolo numero di uomini che costituiranno la sua guardia personale”. (25) Lo stesso aveva fatto Mosé che dopo avere censito e organizzato numericamente le tribù “promulga una legge secondo la quale i primogeniti da quel momento appartenevano di diritto a Yahvé; e poiché naturalmente erano troppo piccoli, il loro ruolo nel Numero sarà trasferito a una tribù speciale, quella dei leviti, che fornirà il corpo del Numero o la guardia speciale all’arca”. (26) Deleuze e Guattari individuano in tale sistema di ripartizione un’opzione strategica volta non solo a disattivare l’aristocrazia dei lignaggi ma anche e soprattutto a impedire la cristallizzazione di un apparato di stato. Esplicito in proposito è il riferimento alle tesi dell’antropologo Pierre Clastres, secondo il quale le cosiddette “società primitive” lungi dall’ignorare lo stato, sarebbero caratterizzate dalla concreta operatività di dispositivi, primo fra tutti la guerra, volti a scongiurarne la formazione. (27) Così come per Marcell Mauss il potlach rappresentava un meccanismo volto a impedire la concentrazione della ricchezza, allo stesso modo la guerra contribuirebbe in maniera decisiva nei contesti “primitivi” a mantenere la dispersione e la segmentarietà dei gruppi coinvolgendo il guerriero in un processo di accumulazione di gesta e imprese che lo conduce “alla solitudine e a una morte prestigiosa” ma non all’acquisizione di potere. (28) Un analogo discorso a parere di Deleuze e Guattari vale per i nomadi che devono essere considerati non un semplice passaggio, arretrato, nella linea evolutiva delle società umane ma una specifica modalità di distribuzione degli uomini, delle forze, delle risorse e dei movimenti che attraversa, con declinazioni diverse, la storia universale. E così la macchina da guerra appare rivolta sia contro gli stati reali che incontra sul suo cammino sia contro gli stati potenziali al suo interno di cui scongiura il consolidamento.

I meccanismi dell’organizzazione numerica e dell’estrazione di un corpo speciale caratterizzano anche, con finalità e obiettivi ovviamente diversi, l’istituzione militare che per Deleuze e Guattari rappresenterebbe il tentativo sempre instabile operato dallo stato di captare la macchina da guerra. Il ricorso degli eserciti all’organizzazione decimale è cosa nota. Diversamente, è opportuno notare come in effetti il ricorso a corpi speciali incentrati su un elemento “estraneo” – schiavi, stranieri, infedeli – rappresenti una costante dell’istituzione militare, come mostrano i casi della guardia islamica di Federico II, dei giannizzeri, dei mamelucchi oppure, per venire a tempi più recenti, della Legione straniera o dei gurka dell’esercito britannico:

Il corpo speciale e, soprattutto, lo schiavo-infedele-straniero è colui che diviene soldato e credente, pur restando deterritorializzato rispetto ai lignaggi e allo stato […]. Si tratta di un’invenzione della macchina da guerra, che gli stati continueranno a utilizzare, di adeguare ai loro fini, al punto da renderla irriconoscibile o di ripresentarla sotto forma burocratica di stato maggiore o in forma tecnocratica di corpi molto particolari o nello “spirito di corpo” che servono lo stato almeno quanto gli resistono. (29)

Si è spesso parlato dei limiti politici dei nomadi, abili e scaltri come guerrieri ma incapaci di “mettere in forma” gli esiti delle loro imprese belliche. Per Deleuze e Guattari la questione è più complessa. La macchina da guerra, infatti, facendosi stato negherebbe se stessa, mutando di natura. Di conseguenza l’alternativa che si impone sarà la seguente: restare macchina da guerra, percorrendo lo spazio imperiale come fosse un deserto (Gengis Khan) o trasformarsi in esercito o apparato di stato volgendosi a quel punto contro il pericolo nomade che preme alle frontiere (Tamerlano). Tra queste due polarità estreme di colloca una varietà di stati misti, in cui a diversi gradi i nomadi si sedentarizzano e i sedentari si nomadizzano, le macchine da guerra si disciplinano come funzione militare e gli eserciti sfuggono al controllo degli apparati di stato per disegnare traiettorie che rimandano alla macchina da guerra. Trasformandosi in funzione militare, la macchina da guerra viene sottoposta a un processo di disciplinamento, sul quale si sofferma anche Foucault – ovviamente assumendo una determinazione temporale più definita, la transizione all’età moderna – quando individua proprio nell’esercito uno dei luoghi privilegiati di formazione del potere disciplinare. (30)

Ritornando al delirio storico-universale di Deleuze e Guattari:

Non si può certo dire che la disciplina sia la caratteristica della macchina da guerra: la disciplina diviene il carattere indispensabile degli eserciti quando lo stato se ne appropria; ma la macchina da guerra risponde ad altre regole […] che animano un’indisciplina fondamentale del guerriero, una continua messa in discussione delle gerarchie, un ricatto perpetuo all’abbandono e al tradimento, un senso dell’onore spiccatamente suscettibile che contrasta con la formazione di stato. (31)

Heinrich von Kleist appare così come il cantore per eccellenza di un’indisciplina sempre emergente della macchina da guerra e della sua irriducibilità alla cattura da parte dell’apparato di stato. Arminio, riluttante a qualsiasi alleanza, che scaglia la sua orda barbarica contro l’impero romano; il principe di Homburg condannato per avere disobbedito agli ordini dei superiori, pur avendo in tal modo conseguito una vittoria decisiva; Michel Kolhaas determinato a seguire fino alle più estreme conseguenze, scontrandosi con le più alte autorità terrene, la linea germanica della faida; Pentesilea, regina della muta guerriera delle amazzoni che “scegliendo” Achille viola la legge del suo popolo che prescrive di attaccare il primo nemico che appare alla vista. Fra il guerriero e il polo della sovranità la tensione appare costante: “I discendenti di Eracle, Achille e poi Aiace, hanno ancora forze sufficienti per affermare la loro indipendenza di fronte ad Agamennone, l’uomo del vecchio stato, ma non possono nulla contro Ulisse, l’uomo dello stato moderno nascente, il primo uomo di stato moderno”. (32 ) E sarà proprio a Ulisse che spetteranno in eredità le armi di Achille, e non al guerriero Aiace, che sconterà con la follia il torto fatto alla dea.

Senso dell’onore, spirito di corpo, codici particolari, una crudeltà irriducibile nelle sue modalità alla violenza di stato: queste per Deleuze e Guattari sono alcune delle manifestazioni dello scarto irriducibile che rende intrinsecamente problematica l’istituzionalizzazione del guerriero nella funzione militare. Da ciò deriva la diffidenza che gli stati hanno da sempre manifestato nei confronti dei propri eserciti, supporto necessario delle politiche di difesa ed espansione ma anche presenza inquietante il cui disciplinamento appare sempre precario e aperto a possibili contraccolpi. L’incorporazione della funzione bellica, che può assumere forme diverse (ricorso ai mercenari o milizia
territoriale, coscrizione o esercito professionale) procede, infatti, da una specifica operazione che snatura la macchina da guerra – volta originariamente a occupare lo spazio desertico e a incontrare il combattimento solo accidentalmente a contatto con le striature che arrestano il suo corso – affidandole la guerra come obiettivo esclusivo. Sintetizzando: “Quando lo stato si appropria della macchina da guerra, questa tende a prendere la guerra come obiettivo diretto e primario, come oggetto ‘analitico’ (e la guerra tende ad assumere come obiettivo la battaglia). Simultaneamente l’apparato di stato si appropria della macchina da guerra e la macchina da guerra prende la guerra per obiettivo e la guerra si subordina agli scopi dello stato”.(33) Nel lessico di von Clausewitz si tratta della subordinazione della guerra alla politica, che stabilisce gli scopi affidandone il conseguimento all’azione militare. A questo punto viene chiamato in causa uno dei più controversi temi del pensiero del generale prussiano, quello relativo allo statuto della guerra assoluta, l’atto di forza condotto sino al ”raggiungimento dell’obiettivo senza soluzione di continuità” che secondo il “rigore filosofico” dovrebbe caratterizzare l’attività bellica.(34) Sulla questione la letteratura critica si è ampiamente esercitata a partire dal carattere non sempre coerente delle osservazioni avanzate dallo stesso von Clausewitz che oscilla fra il configurare la guerra assoluta come ipotesi logico-teorica, la cui realizzazione pratica sarebbe impedita dal peso delle contingenze materiali e politiche, o come un caso limite passibile di una concreta incarnazione, come mostrerebbero i riferimenti all’avventura napoleonica. (35) Deleuze e Guattari, da parte loro, considerano il problema alla luce della differenza strutturale fra la macchina da guerra, con il suo modo di percorrere lo spazio liscio, e il disciplinamento dell’attività bellica agli scopi politici operato dallo stato:

La distinzione fra guerra assoluta come idea e le guerre reali si rivela fondamentale, specie se considerata alla luce di un criterio diverso da quello proposto da Clausewitz. L’idea pura sarebbe quella non di un’eliminazione astratta dell’avversario, ma di una macchina da guerra che appunto non ha la guerra come obiettivo e con essa mantiene soltanto un rapporto sintetico, potenziale o supplementare. Di conseguenza la macchina da guerra nomade non ci sembra, come in Clausewitz, un caso di guerra reale fra gli altri, ma al contrario il contenuto adeguato all’idea. (36)

A partire da ciò, la massima clausewitziana per eccellenza, secondo cui “La guerra è la continuazione della politica con altri mezzi”, sarebbe da leggersi non tanto come una constatazione quanto come assunto normativo, in regime di “guerra reale”, circa la modalità di incorporazione della macchina da guerra nell’apparato di stato, con la politica che predispone il quadro all’interno del quale si svolge l’attività militare. Da un simile punto di vista, si potrebbe aggiungere, è significativo come lo stesso Clausewitz individuasse nella guerra di popolo promossa da Napoleone, con l’esercito che assumeva i tratti di una macchina in grado di autoalimentarsi sulla base del carburante del nazionalismo, (37) l’elemento di rottura che sembra portare a concreta realizzazione lo schema logico-deduttivo della “guerra assoluta”. (38) La guerra, quindi, rappresenterebbe un flusso di cui gli stati si appropriano solo parzialmente, subordinandone lo scopo, l’abbattimento totale dell’avversario, agli scopi della loro progettualità politica.

A parere di Deleuze e Guattari, tuttavia “quando l’oggetto della macchina da guerra appropriata diviene la guerra totale, […] scopo e obiettivo entrano in nuovi rapporti che possono arrivare alla contraddizione”. (39) Da ciò deriverebbe l’ambivalenza dell’autore di Vom Krieg a proposito dello statuto della guerra assoluta e della sua possibile realizzazione nelle guerre napoleoniche:

Di qui l’esitazione di Clausewitz che in alcuni passaggi afferma che la guerra totale
resta condizionata dallo scopo politico degli stati, mentre in altri sottolinea come essa tenda a realizzare l’idea della guerra incondizionata. Infatti l’obiettivo rimane essenzialmente politico e determinato come tale dallo stato ma lo scopo stesso è divenuto illimitato. Si direbbe che l’appropriazione si sia rovesciata e che gli stati tendano a ricostruire un’immensa macchina da guerra di cui sono ormai soltanto le parti, opponibili e giustapposte. (40)

E così lo stato, dopo essersi impadronito della macchina da guerra, si troverebbe a subire una sorta di effetto di ritorno che lo vedrebbe sottomettersi all’oggetto di cui si è appropriato che eccedendo la funzione che gli è stata assegnata assume la figura della guerra totale, vista non semplicemente come guerra di annientamento ma come conflitto che trascende le determinazioni, e le regole del gioco, militari per coinvolgere l’intera società. Per individuare i passaggi decisivi che scandiscono l’appropriazione dello stato da parte della macchina da guerra l’attenzione di Deleuze e Guattari si rivolge ai fascismi storici e alla Guerra fredda. Nel caso dei fascismi, si sottolinea come la guerra, pur se nominalmente sottomessa a scopi politici di tipo imperialistico, assume “un movimento illimitato che non ha altro obiettivo che se stesso”. (41)

Altro passaggio chiave è rappresentato dall’ordine bipolare della Guerra fredda, in cui una macchina da guerra planetaria assume come obiettivo la pace della “sopravvivenza” e del “terrore”. Deleuze e Guattari, nel considerare l’equilibrio della mutual destruction, tendono a non drammatizzare gli elementi di contrapposizione fra i due blocchi per sottolineare la convergenza funzionale che conduce alla presa sull’intero globo di un’unica macchina da guerra. Un’integrazione su cui si soffermano anche le parti di Mille piani dedicate a tematiche di ordine economico, secondo le quali l’esistenza del campo socialista non smentiva affatto l’ipotesi dell’unificazione del mercato capitalistico, rispetto al quale l’economia di piano avrebbe rappresentato una variante, “parassitaria” e inefficiente, e non un’alternativa. Riassumendo, lo stato si appropria della macchina da guerra, a cui attribuisce l’obiettivo esclusivo della guerra, subordinandola ai propri scopi politici. Ed ecco la formula di von Clausewitz: “La guerra è la continuazione della politica con altri mezzi”. Con Napoleone e la guerra di popolo, attraverso la mobilitazione patriottico nazionalistica, si rimane all’interno di tale paradigma anche se la coerenza con cui viene perseguito l’obiettivo (Ziel) cortocircuita la funzione prescrittiva e di comando dello scopo politico (Zwek). Con qualche oscillazione, von Clausewitz parla di guerra assoluta. La crescente integrazione fra guerra ed economia che nel secolo seguente conduce alla “guerra di materiali” imprime alla dimensione bellica una svolta profonda. Siamo nell’ambito della guerra e della mobilitazione totale che promuove una ristrutturazione complessiva, a partire dalle esigenze militari, delle relazioni sociali, politiche ed economiche:

I diversi fattori che tesero a fare della guerra una guerra totale, e specialmente il fattore fascista segnarono l’inizio di un inversione del movimento: come se gli stati, dopo il lungo periodo di appropriazione, ricostituissero una macchina da guerra autonoma, attraverso la guerra che facevano gli uni contro gli altri.(42)

Fino a quel punto, tuttavia, la massima clausewiziana sembra conservare un minimo di capacità descrittiva, in quanto “la guerra fascista restava ‘continuazione della politica con altri mezzi’ sebbene questi ‘altri mezzi’ divenissero esclusivi o lo scopo politico entrasse in contraddizione con l’obiettivo” Da qui la definizione di “stato suicida” coniata da Paul Virilio in riferimento all’esperienza nazista.(43) Diversamente, di vero e proprio ribaltamento della formula di von Clausewitz si può parlare a proposito della situazione che si afferma a partire dalla conclusione della Seconda guerra mondiale, con l’equilibrio del terrore e della dissuasione. La macchina da guerra a questo punto non ha più per obiettivo la guerra ma la pace, nel quale riassorbe, sempre per utilizzare la terminologia del generale prussiano, lo scopo (Zwek), ossia la componente di comando politico: “Appare qui l’inversione della formula di Clausewitz: è la politica che diventa continuazione della guerra, è la pace che libera il processo materiale illimitato della guerra totale. La guerra smette di essere la materializzazione della macchina da guerra, è la macchina da guerra stessa che diviene guerra materializzata”. (44) Secondo Deleuze e Guattari, nello scenario dell’ordine bipolare si ricostruirebbe la macchina da guerra che assume, al di là delle opposizioni fra le sue parti, l’intero globo come spazio liscio. Quel flusso di guerra assoluta di cui gli stati si erano appropriati per subordinarlo agli scopi politici fuoriesce dai limiti che le erano stati assegnati in quanto funzione militare, la subordinazione
dell’obiettivo allo scopo, e si ricostruisce in macchina da guerra:

La macchina da guerra riforma uno spazio liscio che aspira adesso a controllare, circondando tutta la terra. La guerra totale stessa è superata, verso una forma di pace ancora più terrificante. La macchina da guerra ha preso su di sé lo scopo, l’ordine del mondo, e gli stati non sono più che oggetti o strumenti asserviti a questa nuova macchina. È qui che la formula di Clausewitz si rovescia effettivamente, perché per poter dire che la politica è la prosecuzione della guerra con altri mezzi non basta invertire le parole come se si potesse pronunciarle in un senso o in un altro ma è necessario seguire il movimento reale alla conclusione del quale gli stati, dopo essersi appropriati di una macchina da guerra ed averla asservita ai loro scopi, producono nuovamente una macchina da guerra che prende su di sé lo scopo, si appropria degli stati e assume sempre più delle funzioni politiche. (45)

Con ogni evidenza, molte di queste riflessioni non sembrano solo riferirsi al passato prossimo ma risultano per molti versi applicabili anche al contesto unipolare, nelle sue fasi soft e hard, che caratterizza il mutamento di scenario intervenuto con la fine della Guerra fredda. Ancora più attuali appaiono in proposito le osservazioni circa la materializzazione di un sistema di insicurezza organizzata o una figura, il “nemico qualunque”, che emersa nella precedente configurazione geopolitica sembra oggi definire con più chiarezza la propria funzionalità:

Abbiamo visto la macchina da guerra mondiale prendere proporzioni sempre più grandi [..]; l’abbiamo vista attribuirsi come obiettivo una pace ancora più terribile della morte fascista; l’abbiamo vista mantenere o suscitare le più terribili guerre locali […] l’abbiamo vista fissare un nuovo tipo di nemico che non era più un altro stato, e nemmeno un altro regime, ma il ‘nemico qualunque’ […] multiforme, manovriero e onnipresente[…], d’ordine economico, sovversivo politico, morale. (46)

Perché rovesciare Clausewitz?

Per chi parla di guerra, a qualsiasi livello, citare von Clausewitz è quasi un obbligo, un’abitudine o un riflesso condizionato. E così, prima o poi, in tutti i discorsi che toccano questioni belliche la famosa massima salta fuori, e magari si finisce con il ribaltarla, soprattutto per segnalare i cambiamenti intervenuti dal tempo delle guerre napoleoniche. (47) Non stupisce quindi che sia Michel Foucault sia Gilles Deleuze e Félix Guattari, nell’incontrare la questione della guerra, non si siano sottratti alla tentazione di comporre diversamente i fattori della sentenza secondo cui “La guerra è la continuazione della politica con altri mezzi”. Al di là delle convergenze di fondo di carattere filosofico, tuttavia, i due percorsi su cui ci siamo soffermati si incamminano lungo territori, temporalità e nuclei problematici assai diversi.

Michel Foucault, come si diceva, si confronta con la formula clausewitziana all’interno di un progetto di ricerca volto a individuare, all’interno della tradizione della modernità, una linea di riflessione sull’ordine politico alternativa a quella centrata sulla neutralizzazione del conflitto, tipica delle soluzioni filosofico-giuridiche. Ribaltare Clausewitz, in tale contesto, significa insistere sul carattere guerreggiato delle relazioni di potere, vedere nella filigrana della pace i segni di una guerra che non è mai finita, e che la politica conduce con altri mezzi, fissando nell’apparente neutralità delle istituzioni e delle procedure le reali dinamiche di sottomissione e assoggettamento. In tal senso, l’interlocutore privilegiato, in termini di referente polemico da “rovesciare”, non appare il generale prussiano, che sembra in qualche modo limitarsi a fornire uno slogan, quanto Thomas Hobbes, autore fondamentale di quella tradizione del contratto e della sovranità in contrapposizione alla quale Foucault recupera e valorizza la linea i discorsi sulla conquista, l’usurpazione e la guerra delle razze. La critica ad Hobbes tuttavia, si sviluppa a partire dalla condivisione di un medesimo terreno problematico: quello relativo al rapporto fra guerra e ordine sociale, che acquisisce significato all’interno della spazialità confinata dello stato. Rovesciare Clausewitz, in tale prospettiva, significa in primo luogo orientare la massima del generale prussiano dal contesto interstatale in cui originariamente si colloca, a quello interno, per cogliere nel conflitto, e non nella sua neutralizzazione, la base delle relazioni di potere.

Diversamente per Deleuze e Guattari von Clausewitz non è un pretesto, ma un interlocutore privilegiato. Da questo punto di vista, il riferimento al Vom Kriege, in termini espliciti e impliciti, contrappunta le sezioni di Mille piani dedicate alla macchina da guerra e all’apparato di cattura. Ribaltare Clausewitz significa allora proiettare gli schemi del generale prussiano, ovviamente reinterpretati senza soverchie preoccupazioni filologiche e alla luce di alcune ipotesi teoriche “forti”, sulla storia universale fino a raggiungere gli scenari geopolitici, sociali e tecnologici del Novecento. In tale prospettiva la macchina da guerra appare configurarsi come un concatenamento che attraversa i secoli e i millenni coniugandosi in forme sempre diverse e instabili con gli apparati di stato. Tale impostazione, come ovvio, risulta decisamente meno condizionata, rispetto a quella adottata da Foucault, dal riferimento, alle forme, alla spazialità e alle opposizioni (interno-esterno, militare-civile ecc.) della modernità politica. Proprio da ciò discende il carattere “profetico”, rispetto al presente, di analisi calibrate su un’epoca precedente, la Guerra fredda, all’interno della quale tuttavia Deleuze e Guattari colgono, al di sotto della continuità delle vecchie forme, l’operatività di potenti processo di integrazione, di ridisegno degli assetti planetari, di inedite combinazioni fra spazi lisci e striati. Si tratta grosso modi di quella che con termine abusato si è oggi soliti definire “globalizzazione”. Ed è proprio a tale livello geopolitico che con un paio di decenni di anticipo sembra collocarsi il discorso sulla guerra sviluppato in Mille piani.

Note
  1. R. Aron, Penser la guerre. Clausewitz, Gallimard, Paris 1976.
  2. M. Foucault, “Bisogna difendere la società”, Feltrinelli, Milano 1998.
  3. M. Foucault, Sorvegliare e punire. La nascita della prigione, Einaudi, Torino 1976; Id., Microfisica del potere, Einaudi, Torino 1977.
  4. M. Foucault, “Bisogna difendere la società”, cit., p. 21.
  5. Ivi, p. 23.
  6. M. Foucault, La volontà di sapere, Feltrinelli, Milano 1988, pp. 19-48.
  7. M. Foucault, “Bisogna difendere la società”, cit., p. 25. Cfr. Id., Sécurité, territoire, population, Gallimard-Seuil, Paris 2004; Id., Naissance de la biopolitique, Gallimard-Seuil, Paris 2004.
  8. Ivi, p. 22.
  9. Ivi, p. 23.
  10. Ivi, p. 82.
  11. Ivi, p. 86.
  12. E.-J. Sièyes, Che cosa è il terzo stato?, Editori riuniti, Roma 1989, pp. 10-11.
  13. M. Foucault, “Bisogna difendere la società”, cit., p. 50.
  14. Ivi, p. 151. Cfr. M. Foucault, Le parole e le cose, Rizzoli, Milano 1998, pp. 393-399.
  15. M. Foucault, “Bisogna difendere la società”, p. 152.
  16. K. Marx, F. Engels, Opere, 39, Lettere 1852-1855, Editori riuniti, Roma 1972, pp. 399-400; 532-537.
  17. M. Foucault, Dits et ècrits, III, Paris, Gallimard 1994, pp. 310-311. Cfr. Ivi, p. 268.
  18. M. Foucault, “Bisogna difendere la società”, cit., p. 56.
  19. Ivi, p. 47.
  20. G. Deleuze, F. Guattari, L’Antiedipo. Capitalismo e schizofrenia, Einaudi, Torino 1975; Id., Millepiani. Capitalismo e schizofrenia, CooperCastelvecchi, Roma 2003.
  21. J. Keegan, La grande storia della guerra. Dalla preistoria ai nostri giorni, Mondadori, Milano 1994.
  22. G. Deleuze, F. Guattari, Mille piani. Capitalismo e schizofrenia, cit., p. 572.
  23. C. von Clausewitz, Della guerra, Mondadori, Milano 1970, p. 473.
  24. Ivi, p. 542-543
  25. Ivi, p. 543.
  26. Ibid.
  27. P. Clastres, La società contro lo stato. Ricerche di antropologia politica, ombre corte, Verona 2003.
  28. M. Mauss, Saggio sul dono. Forme e motivo dello scambio nelle società arcaiche, Einaudi, Torino, 2002; P. Clastres, Archéologie de la violence, in “Libre”, 1, 1977; Id., Malheur du guerrier sauvage, in “Libre,2, 1977.
  29. Ivi, p. 545.
  30. M. Foucault, Sorvegliare e punire. Nascita della prigione, cit.
  31. G. Deleuze, F. Guattari, Mille piani. Capitalismo e schizofrenia, cit., pp. 505-506.
  32. Ivi, p. 501.
  33. Ivi, p. 573.
  34. C. von Clausewitz, Della guerra, cit., pp. 774-775.
  35. R. Rusconi, Clausewitz il prussiano. La politica della guerra nell’equilibrio europeo, Einaudi, Torino 1999, pp. 278-300.
  36. G. Deleuze, F. Guattari, Mille piani. Capitalismo e schizofrenia, cit., p. 576.
  37. M. DeLanda, La guerra nell’era delle macchine intelligenti, Feltrinelli, Milano 1996.
  38. C. von Clausewitz, Della guerra, cit., pp. 775-776.
  39. G. Deleuze, F. Guattari, Mille piani. Capitalismo e schizofrenia, cit., p. 577.
  40. Ibid.
  41. Ibid.
  42. G. Deleuze, F. Guattari, Mille piani. Capitalismo e schizofrenia, cit., pp. 644-645.
  43. P. Virilio, Velocità e politica. Saggio di dromologia, Multhipla, Milano 1981.
  44. G. Deleuze, F. Guattari, Mille piani. Capitalismo e schizofrenia, cit., p. 645.
  45. Ivi, pp. 577-578.
  46. Ivi, p. 578.
  47. C. Schmitt, Il concetto di politico, in Id., Le categorie del politico, il Mulino, Bologna 1972; A. Gnoli, F. Volpi, I prossimi titani. Conversazioni con Ernst Jünger, Adelphi, Milano 1997, p. 83.
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