LA NUOVA RAGIONE DEL MONDO- Critica alla ragione neoliberista- Introduzione italiana Pt2

Di Pierre Dardot e Christian Laval, DeriveApprodi 2013

Introduzione all’edizione italiana Pt2

I limiti del marxismo

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Ponendo l’accento sul regime disciplinare imposto a tutti attraverso una logica normativa che si è incarnata dentro istituzioni e dispositivi di potere la cui estensione è oggi planetaria, le tesi sostenute in questo libro differiscono radicalmente dalle interpretazioni del neoliberalismo fornite finora. Non si tratta di contestare che le politiche neoliberiste siano dapprima state imposte con la violenza criminale in Cile, in Argentina, in Indonesia e in altri posti, con il vigoroso sostegno dei paesi capitalisti, a cominciare dagli Stati Uniti. Il lavoro ben documentato di Naomi Klein è su questo imprescindibile. Nella fattispecie, c’è una frase di Marx che non è invecchiata: “Nella storia reale la parte importante è rappresentata, come è noto, dalla conquista, dal soggiogamento, dall’assassinio e dalla rapina, in breve dalla violenza”.

Questo parto nella violenza tradisce anzitutto il fatto che si tratta appunto di una guerra condotta con qualunque mezzo disponibile, ivi incluso il terrore, e si impadronisce di qualsiasi occasione possibile per istituire il nuovo regime di potere e la sua forma di esistenza. Eppure prenderemmo la strada sbagliata riducendo il neoliberismo all’applicazione del programma economico della scuola di Chicago con i metodi della dittatura militare. È opportuno non confondere la strategia generale e i metodi specifici. Questi dipendono infatti dalle circostanze locali, da rapporti di forza e fasi storiche, potendo impiegare tanto la brutalità dei golpe militari quanto la seduzione elettorale delle classi medie e popolari; usando e abusando del ricatto all’impiego e alla crescita; servendosi dei pareggi di bilancio e del debito quale pretesto per le “riforme strutturali”, come fanno da sempre il Fondo Monetario Internazionale e l’Unione Europea. […]

Nessuno dubita che vi sia una guerra portata avanti da gruppi oligarchici in cui si mischiano, in forma di volta in volta specifica, gli interessi dell’alta amministrazione, degli ologopoli privati, degli economisti e dei media (senza dimenticare l’esercito e la chiesa). Ma questa guerra mira non solo a cambiare l’economia per “purificarla” dalle nefaste ingerenze pubbliche, ma anche a trasformare in profondità la stessa società imponendole al forcipe la legge così poco naturale della concorrenza e dell’impresa.

È allora fondamentale capire come oggi si eserciti la violenza ordinaria, quotidiana, che pesa sugli individui, alla stregua di Marx che quando osservava la dominazione del capitale sul lavoro ricorreva solo in via eccezionale alla violenza extra-economica, che più sovente esercitava nella forma di una “silenziosa coazione” inscritta nelle parole e nelle cose. Ma non si tratta più di chiedersi come, in generale, i rapporti capitalistici si impongano alla coscienza operaia al pari di “leggi naturali che procedono da sé”, si tratta di capire, più precisamente, come la governamentalità neoliberale si sostenga di una globale cornice normativa, che in nome della libertà e a partire dal margine di azione degli individui, orienta in modo del tutto nuovo i loro comportamenti, le loro scelte e le loro pratiche. […]

Per ragioni teoriche fondamentali l’interpretazione marxista, per quanto sia “attualizzata”, si rivela qui di un’insufficienza stridente. Il neoliberalismo istituisce inedite tecnologie di potere rivolte alle condotte e ai comportamnti. Non può essere ridotto all’espansione spontanea della sfera commerciale e dell’accumulazione capitalistica. Non che si debba difendere, contro il determinismo monocausale di un certo marxismo, la relativa autonomia della politica, ma semplicemente il neoliberalismo, in molti dei suoi risvolti dottrinali e nelle politiche dispiegate, non separa affatto l'”economia” dalla cornice giuridica-istituzionale che determina le pratiche specifiche dell'”ordine concorrenziale” mondiale e nazionale.

Le interpretazioni marxiste, se sono riuscite ad anticipare la crisi finanziaria del 2008, non sono comunque riuscite a cogliere le novità del capitalismo neoliberista: rinchiuse in una concezione che fa della “logica del capitale” un motore autonomo della storia, riducono quest’ultima alla ripetizione di uno stesso scenario, con identici personaggi travestiti con nuovi costumi e identici intrighi collocati in nuovi allestimenti. Insomma, la storia del capitalismo non è mai altro che il dispiegarsi di una sempre identica essenza, al di là delle sue forme fenomeniche e delle sue fasi, che di crisi in crisi ci porta al crollo finale. Così inteso, il neoliberalismo è insieme maschera e strumento della finanza, che sarebbe il vero soggetto della storia. Per Duménil e Lévy, il neoliberalismo “ha restaurato le più rigide regole del capitalismo”, consentendo al potere del capitale di continuare la propria avanzata plurisecolare sotto forme rinnovate attraverso la crisi. Lo stesso David Harvey, pure molto più attento alle novità del neoliberalismo, continua ad aderire a uno schema esplicativo ben poco originale. Stando alla sua tesi, la crisi di accumulazione degli anni Settanta, segnata da stagflazione e diminuzione dei profitti, avrebbe spinto la borghesia a prendersi una “rivincita” attuando- in questa crisi e per uscirne- il progetto sociale formulato dai teorici del Monte Pellegrino. Lo Stato neoliberale, al di là dei suoi tratti specifici e nonostante il suo interventismo, continua a essere guardato come un semplice strumento nelle mani di una classe capitalistica desiderosa di restaurare un rapporto di forza favorevole nei confronti dei lavoratori e di aumentare con questo la propria quota nella distribuzione dei redditi. L’ampiezza delle diseguaglianze e la crescita della concentrazione dei redditi e dei patrimoni, oggi sotto i nostri occhi, confermerebbero l’esistenza di questa volontà inziale. In fondo tutto sta nella risposta formulata da Duménil e Lévy alla domanda “a chi giova il crimine?”: poiché è la finanza a trionfare, è questa che fin dall’inizio sta di manovra. Siamo di fronte a un ricorrente paralogismo che consiste nell’identificare il beneficiario di un crimine con il suo autore, come se la comparsa di una nuova forma sociale fosse da ricondurre alla coscienza di uno o più strateghi, sua fonte o suo nucleo veritiero, come se il ricorso all’intenzionalità di un soggetto fosse il principio ultimo di qualunque intellegibilità storica.

Ma se la spiegazione è seducente, è precisamente perché, all’inverso di tutto l’insegnamento di Marx, essa scambia i risultati storici per i fini inizialmente prefissati in piena coscienza. L’incontestabile polarizzazione della ricchezza e della povertà, nella quale è sfociata la messa in pratica delle politiche neoliberiste, basterebbe da sola a rendere conto della loro natura. In fondo non si tratterebbe di altro che dell’eterna tendenza del capitale ad autovalorizzarsi attraverso l’estensione della merce. Non molto di nuovo sarebbe accaduto dal 1867, quando Marx esponeva il gioco delle leggi dell’accumulazione capitalistica, risalendo dalla merce, forma elementare della famiglia borghese, fino all’accumulazione originaria, produttrice delle condizioni storiche della trasformazione della merce e del denaro in capitale. Nella misura in cui l’analisi di Marx del rapporto salariale, inteso come rapporto mercificato sui generis, il cuore del capitalismo, questa critica tende logicamente a privilegiare la relazione mercificata come modello di ogni relazione sociale: il neoliberalismo allora equivarebbe alla impietosa mercificazione di tutta la società. È ciò che Duménil e Lévy sostengono quando scrivono: “in ultima istanza il neoliberalismo è certamente il portatore di un processo generale di mercificazione dei rapporti sociali”. David Harvey grossomodo concorda con questa tesi, che traduce con l’espressione “accumulazione per spossessamento”, che nel suo lavoro rimanda al senso più profondo di “neoliberalizzazione” della società e ha l’effetto di estendere illimitatamente e a priori la mercificazione. Eppure Harvey apporta al quadro una nuova pennellata, cosa che va a suo merito, quando sottolinea che i metodi della “presunta accumulazione originaria” sono proseguiti ben oltre la nascita del capitalismo industriale e quando fa di Karl Polanyi lo storico del capitalismo più adeguato a capire come ancora oggi sia richiesto l’intervento pubblico per costruire dei mercati e creare “merci fittizie”. Ma il vero motore della storia resta il potere del capitale, che subordina lo Stato e la società mettendoli al servizio della propria cieca accumulazione.

Questo schema largamente condiviso dai movimenti contemporanei, soffre di un certo numero di debolezze. Oltre a fare dell’economia l’unica dimensione del neoliberalismo, suppone che la “borghesia” sia un soggetto storico che si conserva nel tempo, preesistente ai rapporti di conflitto con le altre classi, e che le sia bastato allertare, influenzare e corrompere uomini politici perché questi abbandonassero le politiche keynesiane e le forme di compromesso tra lavoro e capitale. Questo scenario, in Harvey, entra in contraddizione con il riconoscimento che le classi si sono profondamente rinnovate durante il processo di neoliberalizzazione, al punto che in alcuni paesi delle nuove borghesie scaturiscono direttameente dagli apparati comunisti (oligarchi russi, principi rossi cinesi), finendo con l’essere incoerente con la sua stessa analisi, molto precisa, delle forme specifiche di intervento dello Stato neoliberale.

In realtà, non c’è stato nessun grande complotto, né alcun corpus dottrinario che le politiche avrebbero applicato con cinismo e determinazione per colmare le attese dei loro potenti amici affaristi. La logica normativa che ha finito per imporsi si è costituita lungo il filo di battaglie incerte e politiche claudicanti. La società neoliberista nella quale viviamo è il risultato di un processo storico che non è stato programmato dai suoi pionieri, gli elementi che la compongono si sono formati a poco a poco, interagendo e rafforzandosi gli uni con gli altri. Non più di quanto sia stato il diretto risultato di una dottrina omogenea, la società neoliberista non è il riflesso di una logica del capitale che indurrebbe le forme sociali, culturali e politiche più convenienti con l’avanzare della sua espansione. La spiegazione marxista classica disconosce che la crisi di accumulazione alla quale è supposto rispondere il neolibersimo, lungi dall’essere la crisi di un capitalismo sempre identico a sé, ha questo di specifico: è legata alle regole istituzionali che finora inquadravano un certo tipo di capitalismo. L’originalità del neoliberalismo è allora quella di creare un nuovo insieme di regole che, oltre a definire un altro “regime di accumulazione” definisce in modo più generale un’altra società. Siamo qui di fronte a un punto fondamentale. Nella concezione marxista, il capitalismo è anzitutto un “modo di produzione” economico, in quanto tale indipendente dal diritto e che produce l’ordine giuridico-politico di cui necessita in ogni momento del suo autosviluppo. Ora, lungi dal derivare da una “sovrastruttura” condannata a esprimere o ostacolare l’economico, il giuridico è fin da subito parte dei rapporti di produzione nel dare forma all’economico dall’interno. “L’inconscio degli economisti”, come dice Foucault- che in realtà è l’inconscio di qualunque economista, sia esso liberale o marxista- è precisamente l’istituzione, ed è appunto all’istituzione che il neoliberalismo, in partiolar modo nella sua versione ordoliberale, intende restituire un ruolo determinante. Siamo di fronte a un punto sostanziale, la cui posta in gioco attiene al problema della possibilità di sopravvivenza al di là delle sue crisi, possibilità di cui sappiamo si è di nuovo discusso al culmine della crisi del novembre 2008.

Se ci collochiamo in una prospettiva marxista, la logica unica e necessaria dell’accumulazione del capitale determina l’unicità del capitalismo: “Esiste in realtà un solo capitalismo secondo i marxisti, dato che per loro c’è una sola logica del capitale” osserva Foucault. Le contraddizioni che ogni società capitalistica manifesta in ogni epoca sono, secondo questi teorici, le contraddizioni del capitalismo. Se seguiamo, ad esempio, l’analisi del Primo libro del Capitale, la legge generale dell’accumulazione capitalistica ha come conseguenza una tendenza alla centralizzazione dei capitali la cui ricorrenza è, insieme al credito, la leva principale.

La tendenza alla centralizzazione è allora inscritta nella logica della concorrenza come “legge naturale”, quella “dell’attrazione del capitale da parte del capitale”. Ma se pensiamo come gli ordoliberali, e dopo di loro come gli economisti “regolazionisti”, che la figura contemporanea del capitalismo, lungi dal potersi ridurre alla logica del capitale, non è altro che “una figura economico-istituzionale” storicamente singolare, dobbiamo allora convenire che la forma del capitalismo e i meccanismi della crisi sono l’effetto contingenete di alcune regole giuridiche e non la conseguenza necessaria delle leggi dell’accumulazione capitalistica. Di conseguenza, sono suscettibili di essere superate al costo di trasformazioni giuridico-istituzionali. È ciò che in ultima istanza giustifica l’interventismo giuridico rivendicato dal neoliberalismo: dal momento che abbiamo di fronte un capitalismo singolare, diventa possibile intervenire in questo insieme così da inventare un altro capitalismo di fronte al primo, il quale costituirà a sua volta una configurazione singolare determinata da un insime di regole giuridico-politiche. Piuttosto che un modo di produzione economico il cui sviluppo sarebbe presieduto da una logica agente alla stregua di un’implacabile “legge naturale”, il capitalismo è un “complesso economico-giuridico” che ammette una molteplicità di forme singolari. Anche per questo dobbiamo parlare di societa neoliberista e non solo di politica neoliberista o di economia neoliberista: pur essendo innegabilmente una società capitalista, questa società deriva da una figura singolare del capitalismo, che nella sua irriducibile specificità esige di essere analizzata in quanto tale. Vediamo allora che l’analisi della governamentalità neoliberale raggiunge qui indirettamente, come per contraccolpo, la concezione marxista del capitalismo nella sua essenzialità.

Ma non è tutto. L’interpretazione marxista del neoliberalismo non ha ancora capito che la crisi degli anni Sessanta e Settanta non era riducibile a una “crisi economica” classicamente intesa. In questo senso, si è trattato di un’interpretazione troppo ristretta perché cogliesse l’ampiezza delle trasformazioni sociali, culturali, e soggettive introdotte dalla diffusione nell’intera società delle norme neoliberali. Poiché il neoliberalismo non risponde semplicemente a una crisi di accumulazione, esso risponde a una crisi di governamentalità. È infatti in questo contesto molto particolare di generale contestazione che Foucault colloca l’avvento di una nuova modalità di conduzione degli individui, che ha la pretesa di dare un diritto all’aspirazione di libertà in qualunque ambito, tanto sessuale o culturale quanto economico. Per dirlo rapidamente, ha l’intuizione che, in quegli anni, in gioco ci sia la crisi acuta delle forme di potere fino a quel momento dominanti. Contro l’economismo, coglie che è possibile isolare le lotte dei lavoratori dalle lotte delle donne, degli studenti, degli artisti e dei malati e intravede che la riformulazione dei modi di governo degli individui nei diversi settori della società, che le risposte fornite alle lotte sociali e culturali, stanno per trovare nel neoliberismo una possibile coerenza tanto teorica che pratica. Occupandosi da vicino della storia del governo liberale, mostra che quanto dal XVII secolo chiamiamo “economia” è alla base dell’insieme dei dispositivi di controllo della popolazione e di orientamento delle condotte (“la biopolitica”) che troverano una sistemazione inedita nel neoliberalismo. Con quest’ultimo, la concorrenza e il modello imprenditoriale costituiscono un modo generale di governo, ben al di là della “sfera economica” nel senso abituale del termine. Ed è appunto ciò che possiamo osservare ovunque. L’esigenza di “competitività” è diventata un principio politico generale che presiede alle riforme in qualunque ambito, persino nei più distanti dagli scontri commerciali sul mercato mondiale. È la chiara espressione che non siamo di fronte a una “mercificazione rampante”, ma a un’estensione della razionalità di mercato all’intera esistenza, attraverso la generalizzazione della forma-impresa. È questa “razionalità dell’esistenza” che, in fin dei conti, può avere l’effetto di “cambiare il cuore e l’anima”, come sottolineava Margaret Thatcher. […]

Questa analisi, se si allontana da un marxismo assai limitato, finisce col ricongiungersi con una delle maggiori intuizioni di Marx, il quale aveva ben capito che un sistema di produzione economico era anche un sistema di “produzione” antropologico.

 

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