Il sunto del Programma Housing Compagnia San Paolo rispecchia alla perfezione le logiche biopolitiche con cui oggi il capitalismo neoliberale spreme direttamente la vita delle persone, soprattutto tramite la capacità delle stesse di concepirsi come un’impresa individuale in cui anche gli aspetti più personali sono considerati motori di produttività.
Una delle colonne portanti di questo modus operandi sul territorio è proprio quella di concepire lo spazio come tecnologia in cui l’espressione delle proprie capacità personali e la formazione di reti sociali vengono inserite in un processo produttivo sofisticato e a più livelli. La questione chiama perentoriamente in causa gli abitanti della zona in cui il progetto si è realizzato, e che vogliono opporsi alla gentrificazione di cui questo rappresenta un tassello. Aurora è un quartiere nel quale storicamente convivono poveri di diverse provenienze e la cui immagine più potente è quella del grande mercato di Porta Palazzo, approdo commerciale e incontro di tentativi di sopravvivenza della ex città operaia. Lungi dal fare un’apologia delle politiche keynesiane e di redistribuzione che nel secolo scorso velavano l’immaginario della povertà con un misero salario, non ci si può esimere neanche dall’opposizione alle nuove forme di sfruttamento che cercano radice in zone come questa che, alle porte del centro, rappresentano per governanti e imprenditori un terreno fertile in cui attuare una bonifica sociale.
Questo processo non uniforme ed eterogeneo non si conclude semplicemente con la ristrutturazione di immobili potenzialmente di pregio per attirare una nuova soggettività per il quartiere, ma costruisce una nuova articolazione sostanziale di società in cui si fondono pezzi di territorio urbano, impresa, controllo, relazioni e spazio privato dell’abitare. La Compagnia San Paolo, prima in città per investimenti finanziari, propone con il progetto di Social Housing di Piazza della Repubblica un esempio che dice come rinserire soggetti sociali in crisi, considerati appartenenti a una zona grigia a rischio povertà, in un processo in grado di disinnescare la pericolosità che questi potrebbero rappresentare nel caso di esplosioni di rabbia sociale. Tuttavia non si tratta di una semplice opera di caritatismo: coloro che usufruiscono di questo servizio (immigrati con capacità di reddito seppur bassa, famiglie monoparentali, giovani coppie o single con contratti flessibili) si prestano a seguire un regolamento che ha come base una certa condotta sociale e la valorizzazione anche in termini economici del progetto di cui si fa parte. Nel documento programmatico è chiaro che la concessione degli edifici da destinare all’abitazione “social” richieda un grado di adattamento dello spazio domestico, da sempre considerato come esclusivo rispetto all’occhio che governa gli spazi pubblici, a una forma di governamentalità politica più insidiosa: l’intimità dell’abitare è regolamentata ex ante e prevede persino tavoli di confronto con i civich. La questione della condotta diventa esemplare per un altro idealtipo a cui questa coabitazione è destinata, l’ex carcerato che voglia rinserirsi nel tessuto produttivo e sociale. La collaborazione dichiarata con l’associazione LOGOS che si occupa di evitare il reiteramento dei reati per chi ha appena concluso una fase detentiva, svela l’intento politico della Fondazione torinese: mettere in atto processi preventivi rispetto al fragile rispetto dell’esistente da parte delle classi più povere. Nell’interesse di questi padroni c’è quella di creare un primo livello di dipendenza dei meno abbienti in modo che sentano di essere aiutati nel reinserimento nel mercato (del lavoro, dei consumi, del divertimento) piuttosto che arrangiarsi con piccoli espedienti, anche illegali, o con l’appropriazione diretta di case lasciate vuote dai ricchi; in un secondo livello dovrebbero essere loro stessi a costruire reti, a partire da quella di condivisione domestica, in cui sapersi muovere autonomamente escludendo dalla propria prospettiva contestazioni nei confronti dei terzi che possiedono mezzi di produzione, patrimonio edilizio, generose fonti di reddittività o potere prettamente politico.
Questa sinergia ricercata unisce punti diversi sia nella mappa urbana che tra persone di diverse appartenenze sociali. Ecco perché il network si completa nella collaborazione con associazioni e enti che si occupano nel medesimo territorio di riqualificazione e valorizzazione. Nel caso specifico parliamo dell’ Urban Center, Case del quartiere, associazioni di giovani creativi che operano a livello rionale e qualunque altra realtà la cui ragion d’essere è quella della riqualificazione di quella vita che oggi anima Porta Palazzo e che non sempre rientra in un quadro di legalità e governabilità. Questa ricerca di inserimento, e poi di indipendenza, del ceto basso all’interno del mercato è dimostrato anche dal fatto che il tempo di permanenza nello spazio concesso è di massimo un anno. Questo breve periodo deve incoraggiare chi appartiene a questa fantomatica zona grigia a diventare produttivo e avere le conoscenze che gli possano assicurare l’illusione di non essere totalmente solo. Con uno sguardo generale si può affermare che con un dispendio di forze e finanze relativamente basso, l’effetto che si vuole creare è quello di una pacificazione reticolare tra varie classi sociali, la quale auspica a essere molto più forte che in passato. Questo gioco pacificatore è reso possibile perché basato sulle capacità personali all’interno delle piccole agenzie per lo sviluppo dei quartieri, e sul mettersi in gioco in prima persona proprio a partire dalla nuova concezione dell’abitare un progetto sociale e non un mero alloggio. Questo comporta l’esigenza di assumersi la responsabilità di una condotta spendibile in termini di riconoscimento all’interno di quelle stesse reti che traggono profitto dalla socialità creata nel territorio.
Non necessariamente questo tipo di tentativo di mix sociale riesce, ma questa potrebbe non essere la prospettiva teorica corretta dalla quale vedere la faccenda. Le politiche che aiutano il nascere di queste realtà o che offrono sgravi fiscali alle grandi compagnie che mostrano questo impegno nel sociale, non concretizzano punto per punto i propri intenti programmatici. A dimostrare ciò c’è il fatto che proprio il Social Housing di Piazza della Repubblica sia vissuto per ora solo da persone in emergenza abitativa, ma che nonostante ciò già si respiri un aria diversa in quel di Porta Palazzo, non più popolare come qualche anno fa. La spiegazione sta nell’immaginario che si portano dietro questi processi gentrificatori e nel fatto che quando i discorsi inziano a circolare e coinvolgere persone prima disinteressate a quartieri poveri, cambia la concezione generale dello spazio urbano e ciò attira investimenti e capitali oltre che studenti e giovani creativi. Lontano dal parlare solo per astratto, questo si realizza in un fenomeno correlato alla trasformazione generale degli abitanti di un quartiere: la rivalutazione immobiliaria accompagnata da una crescente domanda di mercato e un aumento generale dei costi di locazione.